ORVIETO – Si respira aria di recessione ma almeno fra le mura della città vecchia di Orvieto, si può far finta che il vecchio continente non stia affondando a colpi di spread.
ORVIETO – Si respira aria di recessione ma almeno fra le mura della città vecchia di Orvieto, si può far finta che il vecchio continente non stia affondando a colpi di spread.
Fra i negozi aperti e addobbati a festa lungo il corso Cavour brulicante di turisti che si muovono pigri, arrampicandosi con le auto fino al pozzo di San Patrizio o facendosi trasportare in funicolare dalla stazione, Umbria jazz winter – ossia l’adattamento invernale della kermesse principe estiva ospitata a Perugia – è da diciannove anni un’istituzione cittadina. Anche se quest’anno – va detto – i tagli pesanti alla cultura hanno messo a serio rischio l’organizzazione. Ospitata fra gli stucchi del teatro Mancinelli, le maestose volte di Palazzo del Popolo o nel Duomo, la cinque giorni di musica dal 28 dicembre al 1 gennaio ha offerto cento eventi, totalizzando alla fine oltre 13 mila presenze.
Una vera manna per l’indotto garantito dal turismo con aficionados che non vivono di solo jazz e amano dividersi fra ristoranti, alberghi e bed & breakfast. Giornate benedette, ribadiscono gli addetti ai lavori, che trovano subito riscontro nell’evento inaugurale – visto in anteprima all’Auditorium di Roma ma che qui ha trovato il suo ‘battesimo’ ufficiale, Memorie di Adriano. Titolo pertinente e ironico per riappropriarsi in chiave jazz di una selezione dal repertorio di Celentano, omaggiato da un gruppo guidato da Beppe Servillo con Rita Marcotulli, Fabrizio Bosso, Javier Girotto e Roberto Gatto custodi irriverenti ma sempre appassionati degli archivi del molleggiato.
Manca forse una regia più attenta dell’insieme, ma la cura del particolare c’è e Servillo – che già in passato con gli Avion Travel si era reso protagonista di una intelligente rilettura di Una storia d’amore – ha il piglio giusto per raccontare in chiave jazz questi classici della tradizione nazional popolare con la n maiuscola.Ma il filo rosso scelto dagli organizzatori per riempire le tante caselle del cartellone della diciannovesima edizione – quest’anno vira decisamente dalle parti del latin jazz, incrocio ben sperimentato e adottato da un pubblico affascinato da declinazioni decisamente intriganti. I bei nomi stranieri del genere si sono mescolati con i musicisti italiani, in incroci divertenti per chi ascolta ma anche per gli stessi artisti. Sul palco capita così di veder sfilare musicisti diametralmente diversi nello stile quanto accomunati da una costante ricerca del bello. Considerazioni inevitabile quanto si assiste a performance di livello come quelle di Gonzalo Rubalcaba e Michel Camilo. Il primo placido quarantottenne nato all’Havana capace di folgorare appena ventunenne Dizzy Gillespie che fece di tutto (e oltre) pur di avviargli una carriera negli Stati uniti dove ora a vive e dove si è costruito una carriera ricca di collaborazioni con gente del calibro di Joe Levano, Charlie Haden, coronata da un contratto con la Verve. Un tocco pianistico delicato tanto da costringere il pubblico ha un supplemento di attenzione per cogliere appieno le nuances e i rimandi sonori ai mondi latini, che pure troviamo nella sua musica. Gioca a sottrarre più che aggiungere note, spalleggiato con duttilità dal giovanissimo batterista Matthew Brewer e il percussionista Marcus Gilmore capaci di seguirlo nelle sue evoluzioni, ritagliandosi assoli curati e mai banali. <br />Misurato ed elegante Rubalcaba – anche nell’abbigliamento – quanto informale ed esplosivo Michel Camilo, capace di mescolare vari tipi di cultura musicale. Un funambolo da pianoforte che pure ha trovato il suo equilibrio nella data più attesa delle tre performance umbre, quella che venerdì sera l’ha visto dividere il palco del teatro Mancinelli, pieno in ogni ordine di posti, con Danilo Rea. Un incontro pericoloso sulla carta che si è risolto in una session brillante dove entrambi hanno saputo ben calibrare i propri stili, trascinante e impetuoso Camilo, meditabondo e lirico Rea. E stranamente più assortiti nelle improvvisazioni che quando costretti – esemplare la versione minimale di O’sole mio – a rivisitare brani noti.
In una manifestazione dal profumo latino americano può tranquillamente trovare spazio anche un singolare progetto dove jazz e flamenco vanno a braccetto, proposto da Chano Dominguez che ispirandosi a Flamenco Sketches – uno dei brani compresi in A kind of blue di Miles Davis – mette insieme un set trascinante di un’ora in cui accanto a contrabbasso e batteria ha voluto un cantante e un ballerino di flamenco che rendono vividi e espressivi i vari movimenti del set. Una rivisitazione del classico davisiano accolta da scroscianti applausi, aiutata dalle evoluzioni coreografiche del bravo Daniel Navarro, e dalla voce decisa di Blas Cordoba (entrambi anche alle palmas).
Nella Sala del Carmine, antica chiesa del 300 dove è allestita una mostra-progetto multimediale ispirata a A Love supreme di John Coltrane, il contrabbassista Enzo Pietropaoli con il suo nuovo quartetto – Fulvio Sicurtà alla tromba, rivelazione del jazz italiano, Julian Mazzariello al piano e Alessandro Paternesi alla batteria, ha dato dimostrazione di compattezza e lucidità in un’ora scarsa in cui ha squadernato i brani del suo primo album inciso sotto l’etichetta JandoMusic. Doppio lavoro per l’ex Doctor 3 che in serata nella Sala dei 400 si è cimentato insieme al quintetto di Paolo Fresu in sostituzione di Attilio Zanchi, bloccato da una broncopolmonite. Gruppo collaudato del trombettista sardo presentatosi ad Orvieto in triplice veste, e oltre al quintetto guidato da lui e del pianista Roberto Cipelli, aveva in cartellone anche un set con l’Alborada String quartet e con Crittograph, nel qule riunisce i due gruppi. Ammaliante e mai compiaciuto, sia quando si approccia agli standard del pop – qui c’era Almeno tu nell’universo di Mia Martini – che nel colto salto haegeliano di Lascia che io pianga concludendo il set del quintetto con l’aria pucciniana Sono andati da La Boheme. <br />Chiusura domenica con due tributi, uno a Monk, rievocando il concerto alla Town Hall di New York del 1969, con la Lydian Sound Orchestra e il trio del britannico Stan Lacey, mentre Gianluca Petrella ha ricordato il centenario dalla nascita di Nino Rita in una doppia e nutrita formazione.
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