Trent’anni in levare per gli Africa Unite

INTERVISTA/PARLA BUNNA IL LEADER DELLA BAND 
Per gi Africa Unite un percorso cominciato all’inizio degli Ottanta a Pinerolo, dove Bunna suonava la chitarra e Madaski studiava il piano al Conservatorio di Torino, continuato in Giamaica, dove hanno aperto Gregory Isaacs e cresciuto suonando ovunque. Alle good vibes del reggae, gli Africa hanno sempre accostato un messaggio di giustizia sociale, tra controinformazione e militanza, che scivolando sulle linee di basso, arrivasse dritto in testa.

INTERVISTA/PARLA BUNNA IL LEADER DELLA BAND 
Per gi Africa Unite un percorso cominciato all’inizio degli Ottanta a Pinerolo, dove Bunna suonava la chitarra e Madaski studiava il piano al Conservatorio di Torino, continuato in Giamaica, dove hanno aperto Gregory Isaacs e cresciuto suonando ovunque. Alle good vibes del reggae, gli Africa hanno sempre accostato un messaggio di giustizia sociale, tra controinformazione e militanza, che scivolando sulle linee di basso, arrivasse dritto in testa. Un messaggio condiviso con le Posse, di cui hanno fatto parte anche Bunna e Madaski, attivi nel progetto To.sse, Torino Posse. Da questo movimento underground italiano nato a fine anni ’80, arrivano anche i Mau Mau, Jaka e i Casino Royale, tutti ospiti di una festa concerto della band sul declinare dell’anno appena passato. «E quando compi gli anni che fai? – spiega Madaski – Inviti gli amici!», da Emiliano e Nitto dei Linea 77, a Mama Marjas, Casacci dei Subsonica e Agnelli degli Afterhours, a una parte dei Bluebeaters. Generi diversi ma attitudini comuni, perché in fondo «music is music, diceva Marley – continua Madaski – E ognuno la sente secondo il ritmo del proprio cuore. Ecco, questo è il mio misticismo. La musica è così grande, che non ha senso chiuderla in compartimenti, preferisco suonarla, ascoltarla, coglierne i messaggi e passarne di miei». «Sta proprio nella forza del messaggio lo spirito rivoluzionario di Bob Marley – continua Bunna – Lui aveva davanti agli occhi una realtà che non poteva non denunciare. Noi tentiamo di fare lo stesso, mettendo in musica ciò che non va, per parlarne alla gente».
«Abbiamo sempre voluto sensibilizzare il pubblico, sia in musica, sia collaborando con Emergency, Amnesty» aggiunge Madaski. Ma perché la gente possa ricevere un messaggio e farlo suo, il codice deve essere condiviso: «ecco perché dopo aver cominciato a cantare in inglese, siamo passati all’italiano – spiega Bunna – abbiamo capito quanto fosse importante usare una lingua che tutti conoscessero in profondità, per passare dei contenuti con efficacia. Ci viene da ridere sentendo gruppi dell’ultima ora cantare in patois giamaicano, è pura emulazione. Perfino Marley cantava in inglese. Ed è lui il nostro riferimento, insieme ai grandi del reggae politico come gli Steel Pulse e Linton Kwesi Johnson. Abbiamo sempre guardato a loro e cercato di non cadere nell’emulazione».
Inoltre se si guarda alla Giamaica di oggi, il suo sound è afflitto da una serie di ismi come: «sessismo, machismo e capitalismo sfrontato, uniti a omofobia e violenza – spiega Madaski – Se lo esaminiamo a livello politico-sociale, questo reggae è reazionario e frutto di un’ignoranza colossale. Posso tollerare l’ignoranza di un giamaicano, non la nostra. Da ateo quale sono, nelle mie liriche mi sono sempre scagliato contro il Vaticano, la grande forza occulta che spinge in basso ogni tipo di situazione italiana. Per me è una ragione di vita combattere l’ignoranza della religione, specie se sommata all’ignorante misticismo giamaicano, che guarda a Hailé Selassié, imperatore sanguinario diventato icona». Lontano anni luce da questo, c’è il ritmo in levare degli Africa, che porta con sé l’eco delle parole di Marley, tratte da un discorso dell’oratore giamaicano Marcus Garvey e incise in Redemption Song: «Emancipatevi dalla schiavitù mentale. Nessun altro, se non noi stessi, può liberare la nostra mente».

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password