I misteri per cui l’hanno chiamato in causa più di recente riguardano la mafia e la presunta trattativa con pezzi delle istituzioni nella stagione delle bombe, 1992-93. Quella che portò Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, proclamato quarantott’ore dopo la strage di Capaci. Giovanni Falcone era saltato in aria con la moglie e tre agenti della scorta il sabato pomeriggio (mentre Giulio Andreotti chiedeva a Claudio Martelli i voti socialisti per diventare lui presidente della Repubblica) e il lunedì il Parlamento ruppe indugi e veti incrociati eleggendo il nuovo capo dello Stato.
I misteri per cui l’hanno chiamato in causa più di recente riguardano la mafia e la presunta trattativa con pezzi delle istituzioni nella stagione delle bombe, 1992-93. Quella che portò Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, proclamato quarantott’ore dopo la strage di Capaci. Giovanni Falcone era saltato in aria con la moglie e tre agenti della scorta il sabato pomeriggio (mentre Giulio Andreotti chiedeva a Claudio Martelli i voti socialisti per diventare lui presidente della Repubblica) e il lunedì il Parlamento ruppe indugi e veti incrociati eleggendo il nuovo capo dello Stato. In mezzo, la domenica, proprio Scalfaro aveva commemorato Falcone dallo scranno più alto di Montecitorio chiedendosi: «Ma è solo mafia questa? Non ha anche il marchio atroce del terrorismo? E chi ci può essere dietro un atto di guerra così spietato e clamoroso?». Nel giro di un mese incaricò Giuliano Amato di formare un nuovo governo, e nella lista dei ministri sparì dal Viminale il democristiano Vincenzo Scotti, che dopo Capaci aveva varato insieme al Guardasigilli Martelli il decreto che introduceva l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, quello che introduceva il «carcere duro» per i boss mafiosi. Al suo posto ministro dell’Interno fu nominato l’altro democristiano Nicola Mancino, e ancora dieci giorni fa Scotti ha riferito al tribunale che sta processando l’ex generale Mori di non conoscere le ragioni di quella rimozione: «Avevo avvertito intorno a me un certo isolamento politico. Ma non ho avuto spiegazioni, solo impressioni», esplicitate fuori dall’aula di giustizia: «Qualcuno tra i politici si tirò indietro». Ai pubblici ministeri palermitani che indagano sulla trattativa, e per i quali il cambio della guardia al Viminale rappresenta uno di nodi da sciogliere, l’allora presidente della Dc De Mita ha raccontato di recente che i motivi della sostituzione furono di natura politico-partitica. E che, da quel che ricorda, fu il presidente della Repubblica a caldeggiare l’avvicendamento tra Scotti e Mancino. Affermazione che contrasta con quanto dichiarato un anno fa da Scalfaro agli stessi magistrati: «Non ne conosco i motivi».
Con l’avvicendamento al ministero dell’Interno si aprì una fase in cui tutto si mescola e si confonde, e dove gli stessi fatti possono nascondere banali realtà che oggi si tingono d’intrigo oppure inconfessabili segreti destinati a restare tali. Dopo la sostituzione di Scotti con Mancino s’intrecciano i contatti dei carabinieri con l’ex sindaco mafioso Ciancimino, la strage di Via D’Amelio che toglie di mezzo Paolo Borsellino, il «41 bis» che diventa legge, l’arresto di Riina, nuove stragi di mafia — stavolta in continente: Firenze, Roma e Milano — il ricambio al vertice dell’Amministrazione penitenziaria dove all’improvviso si suggerisce di alleggerire il «carcere duro» per dare «un segnale di distensione». Anche in quell’avvicendamento — e siamo al 1993 — a Scalfaro viene assegnato un ruolo, sebbene tuttora incerto. Perché lui ha detto agli inquirenti di non averne saputo niente, mentre il segretario generale del Quirinale Gifuni ha riferito che fu «sostanzialmente deciso nell’accordo tra il ministro Conso, il presidente del Consiglio Ciampi e il presidente della Repubblica Scalfaro». I pubblici ministeri avevano programmato di tornare ad ascoltare l’ex capo dello Stato, e così il tribunale che giudica Mori. Non hanno fatto in tempo.
Restano le pubbliche dichiarazioni di Scalfaro per cui «nessuno, in maniera diretta o indiretta, e neanche sotto forma di interrogativo, mi ha mai parlato di trattativa». E restano i fatti, tutti da interpretare. A cominciare dalla revoca di oltre trecento decreti di «carcere duro» nei confronti di altrettanti detenuti per mafia. In quegli stessi giorni, a diciotto mesi dalla sua elezione scanditi da attentati, morti «eccellenti» e dal terremoto politico-giudiziario provocato dall’inchiesta Mani Pulite, Scalfaro decide di presentarsi in televisione con un inedito quanto rumoroso messaggio agli italiani. Quello del famoso «non ci sto», in cui il presidente esordisce: «Prima si è tentato con le bombe, ora con il più infame degli scandali». Era il 3 novembre ’93. Il capo dello Stato si riferiva all’inchiesta sui fondi neri del Sisde, in cui alcuni inquisiti avevano lanciato il sospetto che pure lui, da ministro dell’Interno fra il 1983 e 1987, avesse contribuito a una gestione poco chiara dei fondi riservati. O peggio. Si ritrovarono accusati di «attentato agli organi costituzionali». Cioè la presidenza della Repubblica che nel 1994, dopo la discesa in campo di Berlusconi e terminata la campagna terroristica, dovette continuare a navigare per mari molto agitati.
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