Uno psichiatra ebreo indaga sulla scomparsa del nipote. Il romanzo di Zimler prefigura le tragedie che verranno
Uno psichiatra ebreo indaga sulla scomparsa del nipote. Il romanzo di Zimler prefigura le tragedie che verranno
La libertà è un mare, aperto e pericoloso: la città di Varsavia. La prigionia è un´isola: il ghetto in cui lo psichiatra Erik Cohen va a vivere nel 1940, poco prima di essere costretto a farlo dal terzultimo giro di vite della persecuzione nazista (prima, cioè, della deportazione e dello sterminio): così è ancora libero di decidere a chi lasciare il suo bell´appartamento nella zona libera della città. È solo, vedovo; andrà a vivere nel piccolo appartamento dove sua nipote vive con il proprio figlio novenne, Adam.
Cohen spera di impiegare il tempo con una rilettura di Sigmund Freud, che gli servirebbe per trarre un libro dai propri casi clinici: ma non ci riuscirà. Dovrà occuparsi di trovare il cibo, partecipare alla dolente vita sociale del ghetto, accudire il pronipote vispo e indisciplinato, infine affrontare con raziocinio e senso della giustizia un enorme dolore: la sparizione e poi la morte violenta del nipote stesso. Unica possibile reazione al lutto è scoprire chi sia il serial killer che uccide e mutila giovanissimi ebrei.
È l´inizio della trama degli Anagrammi di Varsavia (traduzione italiana di Margherita Crepax, Piemme, pagg. 416, euro 17,50), l´ottavo romanzo di Richard Zimler, uno scrittore americano che vive in Portogallo e di cui in Italia è stato già pubblicato Il cabalista di Lisbona. Qualche recensore ha parlato di lui come di un “Umberto Eco americano”, ma il paragone è superficiale: riguarda solo la sovrapposizione di sfondo storico e vicenda thriller, dove l´uno spiega l´altra con la forza violenta di un emblema. Ma Zimler ha poi una scrittura lontana dalla tumultuosa e onnivora erudizione di Eco: è tersa e reticente, decanta nella laconicità quell´emozione, il dolore, l´amore e l´orrore che pure la hanno messa in moto. Lo stesso narratore interno al libro mostra un distacco assoluto dalla tremenda storia che ha vissuto e che ci sta raccontando. Più di così, anzi, non potrebbe essere distaccato: è morto. Come nel film American Beauty (e anche lì a ben guardare l´assassino era un nazista), il morto racconta non senza partecipazione ma con obiettività disincantata la solitudine che ha attraversato negli ultimi periodi della sua vita. Il lettore viene a sapere subito che è morto e questo lo rende una sorta di predestinato, che osserva, registra, rende oggettivo il flusso degli eventi e dei comportamenti altrui, come se sapesse di doversene presto distaccare.
Nel ghetto di Varsavia gli ebrei vivono in parte aggrappandosi agli usi e alle attività consuete, in parte cercando espedienti per aggirare i divieti, superare le enormi difficoltà, scongiurare il pensiero dell´imminenza. Ma non tutti gli ebrei sono uguali e non tutto è come si vede. Primo Levi aveva trovato nel ghetto di Lódz (il secondo per estensione, proprio dopo quello di Varsavia) la più lampante dimostrazione del concetto di “Zona grigia”: quel potere intermedio fra gli oppressori e gli oppressi, il collaborazionismo degli ebrei che cercano di salvarsi venendo a patti con i nazisti, gli sciacalli capaci di trarre profitto dalla disgrazia. Contiguo a questo sino all´osmosi, e altrettanto occulto, è il fronte della resistenza almeno passiva, la rete di mutuo soccorso che si forma in modo sempre mutevole e provvisorio, senza che ci si possa mai davvero affidare a chi appare alleato: doppi e tripli giochi, spie, criminali o semplici (e insidiosissimi) egoisti sono ovunque. Indagando sulle ragioni e sui responsabili della morte del nipote, Cohen impara che lo stesso piccolo Adam aveva avuto una doppia (ancorché tanto breve) vita. Conosceva i tramiti dall´isola del ghetto al mare aperto della città libera, proibita agli ebrei: passaggi segreti, tombini e cunicoli sorvegliati da ambigui personaggi, a volte benintenzionati, a volte esosi e infidi. Così riusciva a svolgere mansioni clandestine e guadagnare qualche soldo, ed è così che ha incontrato il suo assassino. È il mondo in cui le parole non sono quel che sembrano: i nomi sono anagrammi, misteriosi oggetti trovati in bocca alle vittime alludono al nome dell´assassino; i segreti del corpo, le macchie sulla pelle, le mutilazioni inflitte sono i segni inequivocabili della condanna.
Quello di Zimler è contemporaneamente un romanzo di grande semplicità (è una lettura del tutto raccomandabile anche per le scuole) e acutezza. La verità emerge dalle nebbie del segreto, del dolore, della morte e del sogno e nel prenderne coscienza il lettore deve farsi un po´ saggio come il vecchio Cohen, quasi morire un po´ con lui. Gli anagrammi di cui parla il titolo sono appunto quelli con cui chi vive e traffica in semiclandestinità nasconde il suo nome: Cohen diventerà Honec; per parlare con discrezione del capo del Consiglio Ebraico Czerniakov si usa l´anagramma Czerniakow. Ma Zimler ordisce anche un anagramma di cui non parla al lettore: quello, nascosto ma inoppugnabile, che lega il fantasma di Cohen all´unico che riesca a vederlo e ascoltarlo, il pio abitante del ghetto a cui Cohen si trova a narrare la storia. L´ebreo laico e l´ebreo mistico, lo psichiatra e il devoto, il fantasma e l´uomo, il morto e l´ancora vivo, il narratore e l´ascoltatore si trovano segretamente legati l´uno con l´altro: e così lo scrittore Zimler con il lettore che dovesse cogliere l´inghippo enigmistico.
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