L’oltraggioso contrasto tra le tavole imbandite dei carnefici e le mischie feroci tra gli affamati per contendersi il pane
L’oltraggioso contrasto tra le tavole imbandite dei carnefici e le mischie feroci tra gli affamati per contendersi il pane «A l di là della strada lavora una draga. La benna, sospesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e morbida e azzanna vorace, mentre dalla cabina di comando sale uno sbuffo soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a tergo il boccone di cui è grave e ricomincia. Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare affascinati. A ogni morso della benna, le bocche si socchiudono, i pomi d’Adamo danzano in su e poi in giù, miseramente visibili sotto la pelle moscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto della draga».
Bastano queste righe tratte da Se questo è un uomo per avere un’idea di cosa significasse avere fame in un lager nazista. «Non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame» scrive Primo Levi: «Il lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente». E racconta di un giovane viennese, Sigi, che «ha diciassette anni e ha più fame di tutti quantunque riceva ogni sera un po’ di zuppa da un suo protettore, verosimilmente non disinteressato». Il ragazzo, alla vista di quella benna che divora e mastica la terra, «racconta senza fine di non so che pranzo nuziale e ricorda, con genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di zuppa di fagioli». (…)
Avevano alle spalle secoli di fame, gli italiani avviati nei lager nazisti. Eppure mai si erano confrontati con quella fame feroce descritta da Primo Levi. Tanto più feroce perché del tutto estranea alle carestie e alle catastrofi «naturali». Ma legata esclusivamente ai capricci scellerati dei carnefici. E resa ancora più insopportabile dal quotidiano, straziante, oltraggioso contrasto con quanto quei carnefici avevano a pranzo e a cena sulle tavole loro.
La triestina Nerina De Walderstein, sopravvissuta ai lager di Auschwitz, Birkenau, Flossenbürg, Plauen, ha raccontato in Testimonianze dai lager, di Rai Educational, l’insulto di certe kapò polacche: «Erano peggio delle SS! Se c’è una cosa che detesto, che non sopporto, sono proprio le polacche! Perdonami, Polonia, ma è così! Tutte quelle che sono state là, hanno subito le angherie delle bloccove e dalle blocstube… La notte, loro mangiavano, bevevano, si divertivano… Le sentivamo mangiare e bere, mentre noi, quasi morte di fame, eravamo là a languire. E loro erano pasciute… Nessuna era magrolina: erano tutte tonde, forse anche troppo, perché sfiguravano con noi…».
I profumi degli spezzatini, delle minestre d’orzo, degli stinchi di maiale che venivano dagli alloggiamenti dei carnefici erano una tortura per chi tentava disperatamente di tirare avanti con una tazza di brodaglia o «quelle rape grattugiate, secche, che gettavano dentro in questa chibla di acqua bollente». Era una tortura mangiarle, quelle rape: «Perché erano come tanti aghi che mandavi giù, ti grattava la gola, tante volte piangevi… Prima di mangiare piangevi, poi mangiavi, perché sapevi che non c’era altro. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano veramente meglio». E tutti lì, ad aspettare la «festa grande» della domenica: «Ti mettevi in fila, ti davano una patata, era festa… La tua festa della domenica: una patata con un pochino di margarina…».
Per questo il libro Padelle, non gavette di Fausto Carriero e Michele Morelli è un piccolo, delizioso miracolo. Perché quei due militari internati prima nel campo di concentramento di Leopoli e poi a Wietzendorf, nella Bassa Sassonia, riuscirono prodigiosamente a conservare, nelle condizioni più difficili (per quanto i due lager non fossero campi di sterminio e i carcerieri fossero probabilmente meno spietati che in altri mattatoi nazisti), una straordinaria vena ironica e autoironica. E il loro quaderno di ricette e memorie gastronomiche, con quelle elaborate leccornie dai nomi abissalmente lontani dalla grama vita quotidiana nelle baracche («Charlot di frutta», «Scorze d’arancio, limone e cedro caramellato», «Chantilly», «Chifel imbottiti»…) e accompagnati da quei teneri disegni che ricordano le illustrazioni dei vecchi sussidiari o di Giamburrasca, è un regalo prezioso. Che ci aiuta, grazie alla pubblicazione che avviene finalmente quasi settant’anni dopo per merito di Fausto Morelli, figlio di Michele, a capire come l’uomo, anche nei momenti più cupi, spaventosi, disperati, possa trovare in se stesso la forza di sopravvivere aggrappandosi alla fantasia, al sogno, all’ironia.
Certo, questa ironia, nelle condizioni bestiali di certi lager, a volte non era proprio possibile. Bruna Bianchi, nel libro Deportazione e memorie femminili, riprende una pagina di Aucune de nous ne reviendra dove l’autrice Charlotte Delbo «ricorda quando lei e le compagne, impietosite dall’aspetto degli uomini che si dirigevano al lavoro in colonna, decisero di raccogliere il pane che le ammalate non si lasciavano persuadere a mangiare e di lanciarlo agli uomini al di là dei reticolati. “È subito mischia. Afferrano il pane, se lo contendono, se lo strappano. Hanno occhi da lupo. Due di loro rotolano nel fossato e il pane sfugge loro dalle mani. Li guardiamo battersi e piangiamo. La SS urla, aizza il cane contro di loro. La colonna si ricompone, riprende la marcia. Sinistra. Due. Tre. Non hanno rivolto la testa verso di noi”».
Lo stesso Elie Wiesel, che pure non difetta di quella dote straordinaria degli ebrei che è proprio l’ironia, ricorda ne La notte la sua liberazione solo con parole crude: «Il nostro primo gesto di uomini liberi fu quello di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a quello, né alla vendetta né ai parenti: solo al pane…» (…).
Sì, il meraviglioso «gioco» di Carriero e Morelli in certi lager non sarebbe stato possibile. Appena c’era un piccolo pertugio di umanità nel quale infilarsi, però, erano diversi i prigionieri che ci si infilavano. Lo testimoniano, tra le altre, le memorie di Karla Frenkel, un’ebrea tedesca che riuscì a sopravvivere ad Auschwitz e Bergen Belsen: «Il nostro accompagnatore fisso era la fame e il nostro patrimonio la nostra “scodella”, noi la tenevamo sempre sotto il vestito, stretta al corpo, senza di essa eravamo perdute, perché chi non aveva una “scodella” non poteva ricevere la sua “zuppa” ed era così condannata alla morte per fame… Due donne avevano una mania, cucinavano sempre, confrontavano ricette e addirittura litigavano se una “voleva cucinare in modo diverso”, a volte intervenivano altre che avevano migliori versioni o non erano d’accordo su come questa o quella “voleva cucinare”…». (…)
Lo conferma ne Le memorie dei sopravvissuti Myrna Goldenberg: «Le discussioni sulle ricette richiamavano alla mente delle donne la vita precedente, quando avevano una loro posizione in famiglia e nella comunità… Ma contribuivano anche a ricordare alle donne quante risorse avessero a disposizione per assistere gli altri, come casalinghe e cuoche fantasiose. Condividere i ricordi riaffermava il senso dell’esistenza di una comunità e scambiarsi le ricette in un contesto in cui l’affamamento era pianificato aveva quindi paradossalmente un effetto terapeutico, se non altro per il lungo tempo che le discussioni occupavano». Quello era il punto: parlare di manicaretti e ricette «aveva un forte effetto psicologico, poiché rappresentava un impegno per il futuro».
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