Lo Statuto dei lavoratori e i nipotini di Nenni

Intervistato nel 1971, Pietro Nenni non ebbe dubbi: «Ho visto crescere sotto i miei occhi ben tre generazioni, (…) ora mi accingo a vedere quella dei miei pronipoti. Guardandoli penso: non sono stati inutili questi decenni di lotta, oggi si sta tanto meglio di quanto si stesse ai tempi miei. Sì: la vita è infinitamente meno dura, oggi. Non c’è paragone col mondo in cui erano nati mio padre e mio nonno».

Intervistato nel 1971, Pietro Nenni non ebbe dubbi: «Ho visto crescere sotto i miei occhi ben tre generazioni, (…) ora mi accingo a vedere quella dei miei pronipoti. Guardandoli penso: non sono stati inutili questi decenni di lotta, oggi si sta tanto meglio di quanto si stesse ai tempi miei. Sì: la vita è infinitamente meno dura, oggi. Non c’è paragone col mondo in cui erano nati mio padre e mio nonno».
La citazione è lunga, ma il sottosegretario Paolillo, onnipresente ospite televisivo, pronto a metter mano allo Statuto dei Lavoratori, la merita; di socialista straparla, ma pare ignorare ciò che pensava Nenni e quanto presto si capì che squilibri gravi e costosi si facevano strada, con il carico doloroso di nuove marginalità, nuovi stenti e un capitalismo animato dalle peggiori scelte ideologiche.
In termini assoluti il miglioramento c’era stato, lo coglievano gli anziani se ricordavano l’alimentazione da fame, di classe, uniforme e malaticcia del Sud e di rare terre del Nord; per il resto, era chiaro che sviluppo e spostamento nelle città creavano bisogni nuovi e non meno immediati: la casa, anzitutto, e poi i beni di consumo, legati all’urbanizzazione e alla produzione: elettrodomestici, automobile, televisore.
All’alba degli anni Settanta, Giuseppe De Rita, con una sintesi felice, spiegò che la domanda di beni sociali riconduceva a «bisogni collettivi»: casa, servizi, trasporti. In poche parole, diritti e democrazia. Quando si dice che vivevamo al di sopra delle nostre possibilità è questo che si pone in discussione: diritti e democrazia. Una filosofia della storia e una storia di lotte, di costi e di sacrifici. Tutti a carico dei lavoratori, tutti contro una ottusa e statica modalità di intervento, che oggi trova il contraltare nella “dinamica” e disumana flessibilità.
Sono i limiti del “miracolo economico”, non il tenore alto di vita dei lavoratori il punto di frattura sociale ed economico da cui partire per capire la crisi e le soluzioni da ricercare. Le voci critiche – un economista non può ignorarlo – si fecero sentire, ma ebbero contro tragiche buffonate, come il governo Tambroni e il goffo tentativo di un gollismo tutto tecnocrazia autoritaria e potere di notabili, cui seguirono minacce di golpe del peggior capitalismo d’Occidente. Atterrita dall’autunno caldo e dall’esplosione della contestazione, la reazione puntò sin da allora alla creazione di un esercito di riserva. È in quegli anni – e a partire da quegli anni – che si discute di “età opulenta”, da quando il “miracolo economico” ci ha condotti a fare i conti con gli “occupati precari”. L’economia che non sa di storia e sociologia del lavoro può chinarsi alla bibbia liberista, ma non siamo nati ieri: Eugenio Scalfari, disegnando una mappa del potere in Italia, nel settembre del ’69, scriveva già di un Autunno della Repubblica. Preti parlò di Italia malata nel ’72, e La Caporetto economica di La Malfa risale al ’74, quando Rosario Romeo parlava da tempo di «soluzione dei problemi del paese in chiave di riformismo democratico nel quadro di una società libera (…) con carattere alternativo (…) al mero immobilismo conservatore».
Il fantasma di un incompiuto “sviluppo europeo”, di una fragilità economica mai superata, di una modernizzazione insidiata dalla recessione non lo scopriamo ora. Sylos Labini nel ’75 fu chiarissimo: un terzo della popolazione era povero, ma gli facevano da contraltare due terzi in cima alla scala sociale: uno, quello medio, faceva da scudo al ceto medio-alto con un’aliquota che si arricchiva fortemente ed era chiusa e selezionata. Era lì che si produceva e si produce debito e si immiseriscono i ceti sottostanti. La linea riformista e, quindi, lo Statuto dei lavoratori, mediava il conflitto.
Bene o male, è andata così sinora. Questo governo che spalleggia la “società opulenta” non salva l’Italia. Dimezza il peso e il valore della democrazia e riproduce un’atmosfera sociale “chiusa” da anni cinquanta. Si apre così una fase di scontro sociale che è il vero salto nel buio.

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