Legge sulle carceri, lo sbaglio di Travaglio

IL DECRETO SEVERINO. Oggi il senato riprende la discussione sul decreto Severino sulle carceri. Un provvedimento, va detto subito, giudicato parziale e poco ambizioso, che però negli ultimi giorni si è attirato critiche tanto feroci quanto disinformate da parte del Fatto quotidiano e del suo vicedirettore. In un editoriale di sabato scorso sul suo giornale, Marco Travaglio denunciava un «indulto più o meno mascherato» e invitava ad aprire una discussione sul carcere. Benissimo. Però partiamo dai fatti. E innanzitutto rimettiamo un po’ a posto le parole, sulla base dei loro significati.

IL DECRETO SEVERINO. Oggi il senato riprende la discussione sul decreto Severino sulle carceri. Un provvedimento, va detto subito, giudicato parziale e poco ambizioso, che però negli ultimi giorni si è attirato critiche tanto feroci quanto disinformate da parte del Fatto quotidiano e del suo vicedirettore. In un editoriale di sabato scorso sul suo giornale, Marco Travaglio denunciava un «indulto più o meno mascherato» e invitava ad aprire una discussione sul carcere. Benissimo. Però partiamo dai fatti. E innanzitutto rimettiamo un po’ a posto le parole, sulla base dei loro significati. Il provvedimento proposto dal ministro della giustizia che estende a 18 mesi la possibilità di espiare l’ultima parte della pena nel proprio domicilio o in altre idonee strutture ricettive, ha tre caratteristiche precise: 1) non è uno sconto di pena ma è un’esecuzione penale anche se avviene in luogo diverso dal carcere; 2) non si applica a tutti perché ne sono esclusi coloro che rispondono di un reato di particolare gravità (uno di quelli elencati nell’ampio articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario) o che sono sottoposti al regime di particolare sorveglianza; 3) è una misura disposta caso per caso dal magistrato che acquisisce una relazione del carcere sulla condotta tenuta dall’interessato durante la sua detenzione.
Queste tre caratteristiche rendono il provvedimento ben differente da un indulto.
Perché allora viene presentato come tale da commentatori, quali Marco Travaglio sul Fatto, che pure con procure e carte giudiziarie hanno familiarità? Errore o dolo?
E come si motiva la violenta reazione di Travaglio alle parole del presidente di Antigone che sul manifesto di venerdì scorso ha lamentato il ricompattarsi di un fronte – non formalmente organizzato ma certamente coeso – pronto a leggere ogni alternativa alla centralità e unicità del carcere come rinuncia all’attività punitiva dello stato, pronto a inseguire la richiesta sociale di sicurezza con la falsa rassicurazione dell’estensione della detenzione?
C’è un sapore di vecchio in queste urla che si alzano ogni volta che si cerca di ragionare sulla finalità della pena e sull’improduttività di un sistema che cerca di esorcizzare i problemi rinchiudendoli lontano dal contesto sociale.
Vecchio, perché su di esso molti partiti hanno cercato di costruire consenso e si sono ritrovati a misurarsi con un problema raddoppiato: quello dell’insicurezza crescente anziché diminuita e quello di condizioni di detenzione che, oltre a essere giudicate indegne dalla nostra tradizione di civiltà giuridica e dalla più alta carica dello stato, hanno esposto l’Italia a dure condanne da parte degli organismi internazionali.
Vecchio, perché fa regredire il significato della pena a un retributivismo superato da secoli e totalmente improduttivo sul piano della riduzione della recidiva.
Poiché questi argomenti sono noti a chiunque abbia almeno balbettato qualcosa di diritto, il loro periodico risorgere sembra essere motivato soltanto dalla ricerca di un facile consenso irriflessivo: qui nasce quell’accusa di populismo su cui Travaglio ironizza, leggendolo come nuovo stigma, ma che va letto invece come compiacimento acritico verso un pensiero che non si misura con la complessità dei problemi e insegue gli umori più timorosi di una società spaventata dal ridursi della rete di diritti e tutele.
L’operazione è chiara: l’insicurezza sociale viene «restituita» come inseguimento di una mai raggiunta sicurezza individuale con politiche che finiscono col colpire duramente i soggetti deboli, visti come potenziali aggressori.
Del resto, nei suoi articoli, il Fatto stesso ha più volte individuato nella leggi «riempicarcere» – dalla ex Cirielli a quelle sulle droghe e sull’immigrazione – i fattori che determinano l’ampiezza e la particolare composizione sociale dell’attuale mondo della detenzione in Italia.
Il nominare possibili “inciuci”, di cui non si capisce bene se coloro che appoggiano provvedimenti deflattivi sarebbero consapevoli contraenti o stupidi strumenti, porta al di là del semplice rimettere le cose a posto. Diventa indice di un retro pensiero che coloro che da sempre si occupano di legalità, anche e soprattutto nel luogo – il carcere – dove verso tale valore si dovrebbe essere reindirizzati, rifiutano con ironia prima ancora che con un bel po’ di sdegno.
Tanto più se lo si condisce con la ridicola accusa rivolta a questo giornale di essere compiacente poiché «prende soldi dallo stato». Qui il dotto ragionamento di stretta legalità che il nostro fustigatore voleva proporre lascia spazio a uno stile politico di bassa fattura; sembra un suo ritorno indietro ai tempi – secondi anni Novanta non cento anni fa – in cui il consenso lo cercava più facilmente nell’animoso pubblico della destra che non nei raffinati salotti tv.
Questioni di stile. Su cui questo giornale può permettersi di sorridere con noncuranza, ritornando al tema vero dei provvedimenti per ridare dignità a chi è in carcere. Cauti e timidi quelli proposti dal governo, troppo: altro che indulti mascherati.
* Ex presidente del comitato europeo contro la tortura

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