La rabbia clandestina fra peccato e redenzione

In una periferia di passaggio la storia di Claudia, «schiava» moldava che ritrova umanità  Due anni fa hanno vinto il Torino film festival con Bakroman (2010), ma si erano già  fatti notare col molto apprezzato o doc L’esame di Xhodi (07, entrambi documentari con occhi attenti alle realtà  in mutazione – l’Africa dei ragazzini che si autorganizzano contro povertà  e violenza il primo, le nuove generazioni di migranti in Italia il secondo. Ma il cinema della realtà  è solo uno degli aspetti sperimentati da Gianluca e Massimiliano De Serio nel rapporto con le immagini. Il loro lavoro infatti percorre anche l’arte visiva con installazioni e opere che li hanno resi tra i più seguiti artisti emergenti di questo decennio.

In una periferia di passaggio la storia di Claudia, «schiava» moldava che ritrova umanità  Due anni fa hanno vinto il Torino film festival con Bakroman (2010), ma si erano già  fatti notare col molto apprezzato o doc L’esame di Xhodi (07, entrambi documentari con occhi attenti alle realtà  in mutazione – l’Africa dei ragazzini che si autorganizzano contro povertà  e violenza il primo, le nuove generazioni di migranti in Italia il secondo. Ma il cinema della realtà  è solo uno degli aspetti sperimentati da Gianluca e Massimiliano De Serio nel rapporto con le immagini. Il loro lavoro infatti percorre anche l’arte visiva con installazioni e opere che li hanno resi tra i più seguiti artisti emergenti di questo decennio.
Sette opere di misericordia (coproduzione italo rumena), in gara allo scorso festival di Locarno, è l’esordio nel lungometraggio. Anche stavolta siamo tra i migranti, o meglio tra quei «clandestini» senza neppure un nome come la protagonista (Olimpia Melinte) che si fa chiamare Claudia. Era il nome di un’altra ragazza, una giovane rumena (lei invece è moldava, l’unica cosa che sappiamo) finita cadavere all’obitorio dell’ospedale dove lei traffica rubando nelle borse di parenti e di pazienti. Non ha rimorsi Claudia, i sentimenti li ha cancellati, c’è solo disperazione, rabbia, per avere il passaporto-salvezza è disposta a uccidere. Ma come potrebbe essere diversamente? Vive da schiava, ostaggio di zingari feroci che le tolgono i soldi rubati e la notte la chiudono in macchina al freddo. Dietro intuiamo una storia di ricatti, quelle che compiacciono le cronache, di botte e legami spezzati.
Poi c’è un vecchio (Roberto Herlitzka, presenza forte che i registi non sembrano riuscire a governare con agio), solo, malato, la ragazza lo adocchia nel letto dell’ospedale, lo segue, può servirle al suo piano. Anche lui ha un fardello nel passato e in quella feroce disperazione sembra quasi rispecchiarsi. Assistiamo così all’improvvisa redenzione della nostra che ritrova l’«umanità» passando dalla condizione di ladra a quella di badante: imbocca il vecchio, lo lava, lo cura. Le «Sette opere» – che sono quelle richieste da Gesù nel Vangelo (Matteo 25) per il perdono dei nostri peccati, vestire gli ignudi, dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati ecc – scandiscono la narrazione apparendo in sovrimpressione a lettere «godardiane». Non è certo il solo riferimento di questo film in cui l’ansia di costruire un involucro importante, a cominciare dal titolo caravaggesco, finisce con produrre un effetto raggelante, quasi di svuotamento. Ed è un peccato perché i De Serio dimostrano di possedere, laddove lasciano respirare le proprie immagini, delle belle potenzialità: il modo di filmare il paesaggio senza connotazioni, la scelta di non farci mai vedere un centro cittadino ma solo una periferia di passaggio, baracche e case squallide, l’ospedale gelido e l’autostrada che taglia i campi senza alcuna poesia bucolica.
Il problema è che soffocate la preoccupazione costante per il proprio stile che impedisce quella «generosità» di sguardo necessaria alla storia che raccontano. Forse i De Serio farebbero bene a ripensare – a proposito dei Dardenne – a film come Lorna o L’enfant per scoprire che «filmare bene» non basta da sé a parlarci della disumanizzazione del presente. Ci vuole un sentimento, e soprattutto un’idea di cinema, che qui troppo spesso sembrano mancare.c.pi.

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