La musa segreta di Montale

«Cara Edith, ti voglio bene»: le lettere alla traduttrice americana

«Cara Edith, ti voglio bene»: le lettere alla traduttrice americana

Ultime notizie dal pianeta Montale. A quelle di Esterina, Gerti, Liuba, Dora, Clizia, Mosca, Volpe e altre muse già note, bisognerà aggiungere una nuova voce, minore, certo, ma finora ignota. È quella di una signora americana che si chiamava Edith Farnsworth. Come spesso accade per Montale, le presenze femminili incontrate in vita diventano ispiratrici, figure, angeli o fantasmi poetici. Poche notizie biografiche sulla Farnsworth: nata a Chicago nel 1903, laureatasi nella sua città in letteratura inglese e creative writing, diplomatasi al conservatorio in violino e teoria della musica, seconda laurea in medicina, prestigiosa carriera come nefrologa, amante dell’Italia, dove impara la lingua negli anni Venti per perfezionarla quando decide di stabilirsi definitivamente a Bagno a Ripoli, nel 1967. È lì, in Toscana, che si dedica a un’altra sua passione, la traduzione in inglese della poesia italiana. Attività testimoniata da tre volumi pubblicati tra il 1969 e il 1976 con le versioni di Eugenio Montale, di Albino Pierro e di Salvatore Quasimodo.
Con la Farnsworth si propone per il vecchio Montale una situazione analoga a quella che il poeta aveva sperimentato anni prima a Firenze: nell’estate 1933, quando una giovane italianista americana, Irma Brandeis, aveva voluto conoscerlo. Era la futura Clizia delle Occasioni, che una mattina andò a trovarlo al Gabinetto Vieusseux: ne sarebbe nato un amore difficile, pieno di promesse e delusioni. Edith è meno intraprendente di Irma e decide di rivolgersi a conoscenze comuni. L’incontro viene ricostruito da Marco Sonzogni nel saggio «Un'”apparizione meravigliosa, quasi inverosimile”: tracce di musa nei versi di In un giardino italiano», apparso nella rivista «Studi d’italianistica nell’Africa Australe». Sonzogni ha reperito, tra le carte della Farnsworth, una lettera non datata di Elena Croce, figlia del filosofo, che sta all’origine della conoscenza tra il poeta e la traduttrice: siamo nel 1968 e la Croce presenta l’«amica» a Montale (che di lei «già sa») come «una donna molto intelligente» («dico proprio molto — perché non è una cosa di tutti i giorni»), che «parla e scrive un eccellentissimo inglese New England, e le sue traduzioni hanno un grande fascino». Siccome Edith è «intimiditissima» dal già senatore Montale, la Croce si propone come mediatrice di un possibile incontro a Roma o a Milano. Da una nota a mano, si intuisce che Elena ha incoraggiato l’amica a scrivere all’indirizzo milanese del poeta per suggerirgli un incontro pomeridiano oppure di cercarlo in Senato.
Gli accenni alla Farnsworth sono molto rari nei carteggi montaliani. E contraddittori, aggiunge giustamente Sonzogni. Si trovano nelle lettere a Gianfranco Contini, di cui l’italianista americana era amica: può dunque darsi che l’incontro sia poi avvenuto, in realtà, tramite i coniugi Contini. Il 20 gennaio 1973, il filologo parla a Montale della Farnsworth come di una conoscenza comune. La risposta di Montale, il 26, è poco lusinghiera: «La Farnsworth è troppo remota e alquanto farneticante, con molte zaganelle (crede di essere una grande violinista)». Se rimane piuttosto criptico il riferimento, sembra invece molto chiaro il giudizio, che però contrasta con le parole che Montale le avrebbe rivolto direttamente per iscritto. Sono cinque le lettere di Montale conservate tra le carte della Farnsworth, due manoscritte e tre dattiloscritte. Una sola è quella indirizzata al poeta, scritta in un quaderno e datata 14 agosto 1974. L’unica datata di Montale (23 settembre 1973) contrasta con i giudizi espressi a Contini pochi mesi prima: il poeta, 77 anni, si scusa con Edith («sono pieno di rimorsi»): motivi di salute gli hanno impedito di raggiungerla. Spera di vederla in futuro e conclude: «Cara Edith ti voglio dire che ti voglio molto bene e che per me sei stata e sei un’apparizione meravigliosa, quasi inverosimile». C’è poi il saluto a una tartaruga, come altrove, e vedremo perché. Un’altra lettera è del 1972, poiché il poeta comunica alla «cara Edith» di essere stato operato alla prostata, sperando di poterle far visita all’Antella e chiedendole il numero di telefono. È probabile, precisa Sonzogni, che quando Montale soggiornava in Toscana, i due cercassero di vedersi. In un’altra lettera, probabilmente degli ultimi mesi del ’75, si fa cenno al Nobel: «Io sto in piedi zigzagando e non so come me la caverò a Stoccolma dove devo andare per due o tre giorni. Non sono felice, il Nobel prize non significa più nulla».
Ma in genere, in tutte le missive inviate alla «Cara carissima Edith» e alla «Edith birbona» dal 1970 al ’75, Eusebio (il nome con cui il poeta veniva chiamato dagli amici e con cui lui stesso si firma) mostra di provare un affetto non formale per Edith e di frequentarla con piacere: «Ti penso sempre con affetto e nostalgia per Carrot Street e i suoi cani e le sue galline mugellesi. Purtroppo al Forte non trovai il tempo il modo e la persona adatta che mi portasse da te. Ne ho avuto pena e rimorso». Non esita a farle confidenze sul proprio stato di salute non solo fisica: «Non so più nulla di te. Come stai? Io non ti ho più scritto perché mi trovo nelle condizioni in cui mi hai lasciato. Cammino poco e male (con l’aiuto di qualcuno, quasi sempre Gina), non posso salire né scendere scale. Alla meglio posso bere con 4 zampe, e mi arrangio alla meglio col cucchiaio. Non scrivo quasi nulla. Credi che io possa continuare a vivere in simili condizioni?». Come si già è visto, le esprime i suoi sentimenti di affetto senza riserve: «Voglio dirti solo che TI VOGLIO MOLTO BENE e che sono pieno di riconoscenza per il fatto che tu esisti e continuerai (spero) a vivere».
Nelle lettere si trovano anche notevoli osservazioni poetiche, per esempio laddove, in una lettera collocabile all’inizio del ’70, illustra alla sua traduttrice, alle prese con La bufera, alcuni elementi lessicali de Gli orecchini: la «spera» non è un cannocchiale, ma «un grande specchio corroso dal tempo, dal salnitro e da altre muffe»; «le èlitre ronzanti non sono mosconi ma aerei bombardieri; siamo in guerra». E conclude con una nuova confidenza sul suo rapporto con le Muse: «Non c’è la fine di un amore perché i miei amori non finiscono mai anzi si accentuano dopo la morte o la scomparsa dell’oggetto amato». Invita poi la «birbona» a procedere nella traduzione «del vecchio poeta / dei cuttlefish», il poeta cioè delle seppie che ora «non trova parole adeguate / ad una Musa rubella /che domina e fa strage sull’Antella». Insomma, toni molto molto diversi da quelli che vengono esibiti con Contini.
All’Antella, esattamente nella villa di Edith, Montale deve essere andato più volte, al punto da ospitare la nuova musa almeno in una poesia, contenuta in Diario del ’71 e del ’72. Si tratta del componimento In un giardino «italiano», che si apre con una (ennesima) figura da bestiario: «La vecchia tartaruga cammina male, beccheggia / perché le fu troncata una zampetta anteriore». Nel piccolo e anziano animale, che «arranca invisibile in geometrie di trifogli / e torna al suo rifugio», il poeta riconosce una presenza fraterna, al punto da identificarsi nella sua età avanzata e nel suo precario stato di salute. La poesia era intitolata in origine All’Antella, come avrebbe rivelato Contini nel 1981, aggiungendo di conoscere il «padrone» di quel giardino italiano, «una signora americana purtroppo scomparsa da alcuni anni, che è stata la miglior traduttrice di Montale, anche se nessuno se n’è accorto». Il filologo, dichiarando il nome della Farnsworth, precisa che si trattava di una «grande medichessa», che «aveva sfiorato il premio Nobel per una scoperta clinica, poi aveva abbandonato tutto per la poesia e l’Italia», ritirandosi in una villa in Toscana. E la tartaruga, rimasta un enigma anche per i massimi esegeti di Montale? Sonzogni ci tiene a ricordare come il poeta prediligesse «partire sempre dal vero», lasciando poi che figure e presenze si trasfigurassero, acquistando dimensioni altamente simboliche. La tartaruga zoppa è un incontro reale nel «giardino italiano» dell’Antella. Lo dimostra il saluto epistolare di Montale e lo conferma con maggiore precisione l’unica lettera di Edith, dove si parla appunto del povero animale malconcio come di una creatura viva e presente: «La tartaruga, invece, è già sveglia — mi è venuta incontro sul sentiero l’altro giorno, la testina fuori, le tre zampe da rettile portandole avanti con una velocità sorprendente».
In una lettera scritta nel Capodanno 1978, Montale rispondeva agli amici Contini che gli avevano annunciato la morte della «padrona» dell’Antella, sempre cercando in tutti i modi di non tradire nulla di quel sentimento accorato che non molti anni prima aveva ispirato le missive tanto affettuose alla «birbona» e «cara carissima» amica: «La scomparsa di Edith mi ha molto addolorato ma il fatto è che ci siamo visti pochissime volte e questo attutisce il dolore. Forse dico una sciocchezza e dimostro durezza di cuore ma alla mia età non resta altro che indurirsi».

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