Kristin Scott-Thomas eÌ€ la protagonista del film di Gilles PaquetBrenner, nelle sale italiane questo venerdiÌ€. Una giornalista alle prese con un’inchiesta sul rastrellamento ordinato da PeÌtain nel 1942, che finiraÌ€ per riguardare la sua stessa vita
Kristin Scott-Thomas eÌ€ la protagonista del film di Gilles PaquetBrenner, nelle sale italiane questo venerdiÌ€. Una giornalista alle prese con un’inchiesta sul rastrellamento ordinato da PeÌtain nel 1942, che finiraÌ€ per riguardare la sua stessa vita
«Perche? lo fai?» chiede preoccupata la sorella da New York. «Perche? e? giusto» taglia corto al telefono Julia Jarmond, ovvero Kristin Scott-Thomas. La giornalista americana vive da vent’anni a Parigi, ha sposato un architetto francese, sta per traslocare in una bella casa del centro storico, ma di colpo si ritrova a fare i conti con una scelta personale da far tremare e le vene e i polsi.
La chiave di Sara e? uno dei tanti, troppi, bei film d’autore che escono nelle sale italiane venerdi? prossimo, con il rischio di cannibalizzarsi a vicenda. Il consiglio e? di andarlo a vedere subito, per poi orientarsi su Shame e La Talpa. Non si ride in nessuno dei tre, e forse e? giusto cosi?: di commedie insulse e generazionali se ne fanno a iosa in Italia.
Il dilemma morale con cui deve confrontarsi Julia e? presto detto. Lavorando a un’inchiesta su quella che i francesi chiamano “la rafle”, la giornalista incappa in un segreto imbarazzante, diciamo una vergogna infamante. Tutto risale al 15 luglio 1942, quando, con atto abominevole e atroce, il governo collaborazionista del maresciallo Pe?tain mise in pratica, dopo accurata e burocratica preparazione, il rastrellamento di 13 mila ebrei parigini. I comandi tedeschi avevano suggerito il 14, giorno della presa della Bastiglia, ma sembro? troppo. Cosi? si fecero passare altre 48 ore e, all’alba di quella calda giornata d’estate, la polizia francese legata al regime di Vichy irruppe nel quartiere di
Montmartre e sequestro? uomini, donne, bambini, vecchi. Dovevano essere ancora di piu?, 24 mila, ma molti israeliti riuscirono a nascondersi, in quelle ore concitate, grazie all’aiuto dei parigini.
Gli sventurati vennero rinchiusi nel Ve?lodrome d’Hiver, in condizioni igieniche spaventose, senza acqua, cibo, medicine, e gia? li? cominciarono a morire o a suicidarsi. Appena cinque giorni dopo sarebbero stati avviati in vari campi di concentramento, quasi tutti in quello tristemente noto di Beaune-La-Rolande. Prossima tappa: le camere a gas in Polonia. Solo 25, di quei 13 mila, tornarono a casa alla fine della guerra, nessuno dei bambini.
Il romanzo di Tatiana de Rosnay (Mondadori), da cui il film di Gilles Paquet-Brenner e? tratto, immagina invece che uno di quei bambini, appunto la Sara Starzynski del titolo, riesca a scappare dal lager francese prima di finire nelle camere a gas di Hitler. Per tornare, grazie all’aiuto di una coppia di contadini, nell’appartamento lasciato precipitosamente quella mattina di luglio, dopo aver nascosto il fratellino in un armadio a muro, conservando la chiave per tutto il tempo. Trovera? una terribile, doppia verita?: il ragazzino e? morto da mesi e nessuno se n’e? accorto, nonostante il fetore che traspirava dalle pareti; la casa e? occupata da una famiglia francese, che l’ha avuta praticamente gratis, essendo stata requisita agli ebrei.
Esattamente sessant’anni dopo Sara diventa un’ossessione per Julia. Che fine ha fatto? E? viva, e? morta, ha avuto dei figli? Abita ancora in Francia? L’inchiesta giornalistica si trasforma lentamente in una sorta di j’accuse morale nei confronti di quella verita? nascosta, rimossa, sotterrata, e la trafittura si fara? piu? acuta, per la donna sospesa tra radici americane e vita europea, quando Julia scoprira? che la casa ristrutturata nella quale sta per trasferirsi col marito e? proprio quella di Sara.
Il tema della “rafle” non e? inedito nel cinema francese. Giusto un anno fa usci? da noi Vento di primavera della regista Rose Bosch, didascalico e bruttarello, ma deciso a riaprire senza tanti complimenti quella ferita mai rimarginata. Una macchia nera per certi versi incancellabile. Perche? furono migliaia, a partire dai 9mila poliziotti che operarono materialmente il rastrellamento, i francesi coinvolti nella deportazione degli ebrei, in un crescendo di odio razziale e atti meschini, umiliazioni inflitte e ruberie legalizzate. Solo nel 1995 il presidente Jacques Chirac chiese ufficialmente scusa, parlando di «ore buie che macchieranno per sempre la nostra storia, un insulto al passato e alle nostre tradizioni». Il minimo che potesse fare.
Ma La chiave di Sara va oltre la ricostruzione dell’abominio collaborazionista, e anzi la forza del film, piu? che nel resoconto dell’inferno patito dagli sventurati ebrei francesi nel 1942, sta nello sguardo impietoso della giornalista-detective. Donna non piu? giovane alle prese con una maternita? complicata che il marito rifiuta, Julia scardina la congiura del silenzio, costringe la famiglia acquisita a misurarsi con quel passato che ritorna, infine si mette alla ricerca di Sara, forse emigrata negli Stati Uniti.
Il film e? toccante ma non piagnone, classico ma non prevedibile, romanzesco ma non divagante. L’andirivieni temporale serve a ricordare l’orrore razzista di ieri e a mostrare l’ipocrisia borghese di oggi. E intanto Julia, incarnata con dolente fierezza dall’attrice inglese stabilitasi da anni a Parigi (che bello sentirla parlare in francese nella versione originale), diventa la voce di Sara, che mai guari? davvero dalla tragica esperienza.
Difficile non pensare al gran saggio autobiografico di Primo Levi I sommersi e i salvati. Per tante ragioni. E una coincidenza cruciale.
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