Iofan, l’archistar dell’utopia staliniana

Prima di diventare il costruttore di regime, aveva studiato e lavorato a Roma. Una mostra a Mosca oggi lo celebra
Una figura complessa. Iscritto al Pci, conosceva Gramsci e Togliatti. La moglie era una nobile «bolscevica»
Il capolavoro mancato: la Casa dei Soviet un’opera monumentale che non fu mai costruita

Prima di diventare il costruttore di regime, aveva studiato e lavorato a Roma. Una mostra a Mosca oggi lo celebra
Una figura complessa. Iscritto al Pci, conosceva Gramsci e Togliatti. La moglie era una nobile «bolscevica»
Il capolavoro mancato: la Casa dei Soviet un’opera monumentale che non fu mai costruita

È vissuto in un palazzo costruito da lui, con vista sul cantiere di quella che avrebbe dovuto diventare la sua opera più maestosa, ed è morto in una casa di cura progettata da lui. La vita di Boris Iofan, nato 120 anni fa, è letteralmente iscritta nella pietra, e il suo destino si può seguire con la guida di Mosca in mano. Architetto dei più importanti monumenti staliniani, e soprattutto autore dell’utopia in pietra e cemento armato del Palazzo dei Soviet, dopo anni di trionfi è stato relegato ai manuali, più di storia che di architettura, come il simbolo della propaganda in mattone della dittatura. Ora il Museo dell’architettura di Mosca gli dedica una mostra, dal titolo eloquente «L’architetto del potere», ma la curatrice Maria Kostiuk nega nostalgie ideologiche: «Non è un tentativo di magnificare Iofan, semmai di svelarlo al pubblico».
Un architetto misterioso, che sfugge alle definizioni. Il suo nome latita nei dibattiti infuocati, creativi e politici, degli anni 20, quando sbarca in una Mosca dominata da personaggi del calibro dei fratelli Vesnin, Moisey Ginzburg o Konstantin Melnikov. È quasi uno straniero, arriva da Roma, dove ha studiato e lavorato per 10 anni, passando prima per Pietroburgo e Parigi. A reclutarlo, nel 1924, è il primo ministro Alexey Rykov, che verrà arrestato (e fucilato) nel 1937, mentre Iofan miete il suo ennesimo trionfo, il padiglione sovietico all’Expo di Parigi, sormontato dalla statua L’operaio e la colcosiana, altra icona del regime. È iscritto al Pci dal 1921, e frequentava Togliatti e Gramsci, ma chi lo conosce dice che non era un fervente comunista, semmai odiava lo zar, memore dei pogrom degli ebrei nella Odessa della sua infanzia. Mosca gli è estranea, e forse anche per questo la cambia con disinvoltura. È sconosciuto, nel suo portfolio una decina di lavori a Roma e dintorni: case, villini, cappelle a Verano, terme e cimiteri a Narni, la centrale elettrica di Acquoria a Tivoli, ma ottiene subito le migliori commesse. Villaggi operai, case di cura per la nomenclatura, accademie e soprattutto la «Casa sul fiume», un gigantesco blocco grigio sulla Moscova, che detta gli standard del lusso comunista. Le stanze sono grandi, e tante, le cucine piccolissime, perché il complesso contiene (oltre a cinema, asili, teatri e tintorie) una mensa. L’uomo nuovo deve preferire l’alimentazione in pubblico all’individualismo borghese, ma gli appartamenti prevedono la stanzetta per la servitù. Iofan viene premiato con un appartamento, e ne diventa uno degli inquilini più longevi: ci abiterà per tutta la vita, mentre la maggioranza dei suoi vicini della nomenclatura verranno prelevati di notte dalla polizia segreta, senza riuscire a godersi la nuova residenza.
Ovviamente il cuore dell’esposizione è dedicato al Palazzo dei Soviet, con il plastico della «torta nuziale» come venne definito sprezzantemente dai colleghi europei, infuriati anche per la bocciatura al concorso di Le Corbusier, questo incubo di quasi 500 metri di altezza – di cui 80 metri occupati da una statua di Lenin con la testa che finiva letteralmente tra le nuvole – che ormai è considerato nella lista dei crimini, per fortuna incompiuti, del comunismo. Il concorso per l’edificio di fronte al Cremlino nel 1932 ha segnato simbolicamente la fine delle sperimentazioni dell’avanguardia, e l’arrivo di un’architettura faraonica, di cui Iofan viene consacrato massimo sacerdote. I disegni – alcuni restaurati per l’occasione – mostrano però un progetto tormentato. Le prime proposte, ancora venate di idee avanguardiste, vengono appesantite man mano che il potere richiede nuove magnificenze. L’altezza aumenta, le statue e i colonnati si moltiplicano, Lenin dal piedistallo all’entrata si sposta in vetta. Nel cantiere, sul sito della cattedrale di Cristo Redentore, fatta esplodere, fervono i lavori, mentre intere fabbriche vengono impegnate per le tappezzerie e le maniglie di bronzo del tempio comunista. «Non è vero che la costruzione si rivelò impraticabile, se non fosse stato per la guerra sarebbe stato realizzata», dice Kostiuk, smentendo una leggenda diffusa a Mosca.
Il progetto si blocca, ma vengono costruite le sette torri che dovevano incorniciarlo. Un’altra idea di Iofan, che però viene brutalmente allontanato dal cantiere del grattacielo più imponente, l’Università. Nel frattempo Stalin muore, Kruscev ne denuncia i crimini, tra i quali l’urbanistica, «espressione di un’architettura della pretenziosità, dell’inverosimile e dell’assurdo, non adatta alle esigenze del popolo sovietico». È un contadino pragmatico, che riempie le città di parallelepipedi a cinque piani che avrebbero portato il suo nome, e trasforma la fossa del Palazzo, già allagata dal vicino fiume, in una piscina all’aperto. Gli edifici staliniani continuano a dominare Mosca e plasmare l’immaginario dei suoi abitanti, ma le torri e i colonnati del «tardo Repressance» diventano una presenza ingombrante urbanisticamente e ideologicamente. Iofan però continuerà a lavorare fino alla morte nel 1976, dedicandosi sia a quartieri periferici che a edifici più prestigiosi.
Merito, secondo Kostiuk, «della felice qualità di adattarsi sia alle esigenze del committente che allo spirito del tempo». Federica Patti, architetto e ricercatrice torinese che per prima in Italia ha indagato i trascorsi romani di Iofan legandoli all’ascesa sovietica, lo descrive come un abile gestore di relazioni: «Distante dal dibattito professionale, ma molto vicino a quello politico». A Roma frequenta sia l’aristocrazia che gli esuli russi spiati dalla polizia politica. Come sua moglie, Olga di Sasso Ruffo, figlia di una principessa russa e cognata di un gran duca Romanov, ma «attivissima propagandista bolscevica» secondo i rapporti degli agenti. Una flessibilità che si manifesta anche nell’arte: dopo gli studi al Regio istituto delle belle arti lavora con Armando Brasini, appassionato di barocco, constatando di avere «gusti artistici divergenti», ma invitando poi il maestro al concorso per il Palazzo (del quale, prima che vincitore, l’«architetto del potere» fu consulente e organizzatore). A Roma viene esposto alle influenze più diverse, dall’Art Nouveau al futurismo, dalle eterne rovine antiche agli incontri con Piacentini e Giovannoni. Fa il volontario ad Avezzano dopo il terremoto del 1915, lavora con le cooperative edili, frequenta i salotti aristocratici e l’ambasciata sovietica, in una breve luna di miele in cui l’Italia da poco fascista e la neonata Urss hanno rapporti politici e commerciali, e un’intensa attrazione ideologica ed estetica.
Un pezzo della storia di Iofan che la mostra al Museo dell’architettura di Mosca rivela al pubblico russo per la prima volta, insieme ad altri aspetti di un architetto famoso quanto sconosciuto. Per Alessandro De Magistris, professore del Politecnico di Milano e massimo esperto italiano dell’architettura sovietica, una commemorazione che restituisce l’immagine complessa di un architetto banalizzato dall’ideologia, tutt’altro che un «becchino dell’avanguardia». E che ha segnato luoghi di Mosca che continuano a essere snodi di storia anche dopo la sua morte. Sul sito del Palazzo dei Soviet è stata ricostruita la cattedrale del Redentore, fatta esplodere per fare spazio al progetto di Iofan. E da due settimane l’opposizione di Mosca si raduna per chiedere le dimissioni di Putin davanti alla Casa sul fiume, che rientra così, grigia e impassibile, al centro della nuova rivoluzione russa.

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