In viaggio sulle strade della rivolta

Dai salafiti di Tunisi ai diseredati del Cairo, dai pesci avvelenati nel mare di Tripoli ai due kalashnikov per ogni famiglia yemenita. Un anno fa iniziava una nuova stagione per il mondo arabo. Ecco a che punto siamo secondo gli appunti raccolti sul campo da un grande esperto

Dai salafiti di Tunisi ai diseredati del Cairo, dai pesci avvelenati nel mare di Tripoli ai due kalashnikov per ogni famiglia yemenita. Un anno fa iniziava una nuova stagione per il mondo arabo. Ecco a che punto siamo secondo gli appunti raccolti sul campo da un grande esperto Tunisi. Scopro così che la moschea al-Fath è controllata dai salafiti, e non da Ennahda come credevano quasi tutti i miei informatori laici che ancora non riescono a distinguere gli uni dagli altri. Durante il sermone l´imam, un saudita in visita, non fa il minimo cenno alla vittoria di Ennahda. Alcuni fedeli protestano chiedendo che l´evento venga invece celebrato: ne nasce un battibecco che per poco non sfocia in rissa con i salafiti, presenti in gran numero, che trattano Ghannouchi come fosse un eretico.

Tripoli
La Libia è un paradiso per gli amanti dell´arabo, Gheddafi aveva vietato l´insegnamento delle lingue straniere e gli studenti, per compensare, si sono dedicati intensamente allo studio della lingua e della letteratura araba: rappresentavano un rifugio culturale contro un dispotismo che si faceva sentire fin negli aspetti più banali della vita quotidiana. Abdurrahman, il mio autista, si esprime in un arabo elegante e mentre conversiamo passiamo vicino al porto, davanti agli edifici di architettura fascista lasciati da Mussolini, dove noto dei magnifici banchi di pesce. «Ha un bell´aspetto quel pesce, è di qui?», faccio io. «No, lo importiamo, qui non mangiamo il pesce locale», mi risponde Abdurrahman. «E perché? Il pesce è halal (non vietato dalla legge islamica, ndr) ». «Non è una questione di halal, è che Gheddafi buttava in mare dagli elicotteri i prigionieri ammanettati e non vogliamo mangiare i pesci che si sono nutriti della carne dei nostri fratelli».
Siamo abituati all´idea che i regimi dispotici arabi abbiano torturato, violentato, massacrato le loro popolazioni. Ma che il dispotismo si sia infiltrato perfino nella catena alimentare, arrivando addirittura sulle tavole dei cittadini, indica una capacità rara di distruggere la società fin nelle sue fondamenta. Gheddafi voleva essere il migliore in tutto: il miglior soldato, il miglior poeta, il miglior idraulico, il miglior contadino, il miglior venditore. E faceva arrestare e ammazzare tutti quelli che eccellevano nel loro campo e potevano mettere in ombra la sua mania di grandezza. Tutte le élite sono fuggite da un paese che il despota ha letteralmente privato delle sue facoltà intellettive: oggi ritornano, ma devono fare i conti con una nazione che faticano a riconoscere. Ovunque, nelle strade, giovani “rivoluzionari” armati vanno in giro a bordo di 4×4 con il nome della loro città o della loro tribù (“Brigate di Misurata”, “Brigate di Zintan”), pronti a farsi a pezzi per conquistare il potere, e fonte di inquietudine per la popolazione urbana che ne teme il racket. C´è ancora tanto da fare per istituire lo stato di diritto – una rivoluzione culturale, forse.

Sana´a
Vengo ricevuto dallo sceicco Sadeq al-Ahmar, il capo della confederazione tribale più potente dello Yemen, tra le rovine del suo palazzo bombardato. Qualche pavone, sopravvissuto alle granate sparate dalle truppe fedeli al presidente Saleh, si aggira indifferente tra le macerie. È pomeriggio e come gran parte degli yemeniti lo sceicco mastica il qat, la foglia di un arbusto dalle virtù euforizzanti che “immagazzina” – come si dice in arabo – in una palla che gli deforma la guancia. Quando si mastica il qat non si combatte (sarebbe impossibile, è una droga che ottunde i sensi) e si può perfino chiacchierare amichevolmente con avversari con cui la mattina ci si è presi a cannonate. La coltivazione del qat, molto redditizia per i contadini che grazie a questo arbusto possono contare su introiti quotidiani in contanti, ha sostituito le coltivazioni di prodotti alimentari e ha prosciugato le riserve idriche del paese ma lubrifica i rapporti sociali (al prezzo della rovina dello Yemen).
I vari quartieri di Sana´a sono controllati dai soldati del presidente o dai reggimenti che hanno disertato per passare nel campo dell´opposizione. Però si può circolare tranquillamente, salvo nei momenti in cui i combattimenti sono più intensi e a meno di non essere uno straniero, preda ideale per i rapimenti.
Intorno all´università, gli oppositori hanno allestito una tendopoli sotto la protezione dei reggimenti ammutinati. All´interno della tendopoli convivono tutte le sette ed è vietato portare armi: questo è il solo luogo franco in un paese dove si contano più di due kalashnikov per famiglia. I membri della setta zaydita, sciiti del nord accusati dagli avversari di essere al soldo dell´Iran, convivono con le tende dei salafiti stipendiati dall´Arabia Saudita, mentre sulle montagne le due fazioni si massacrano a vicenda. Vengo invitato da alcuni giovani legati ai Fratelli musulmani a partecipare a un incontro sulle rivoluzioni arabe, e per due ore parlo della Tunisia, della Libia e dell´Egitto a una folla che per entusiasmo e disordine mi ricorda il Quartiere Latino della mia giovinezza. Con la differenza che qui, oltre a socialisti con berretto di cuoio, ci sono miliziani tribali che masticano qat, uomini barbuti con il cranio rasato e donne velate da capo a piedi.
Il Cairo
Vado a rivedere insieme a un´amica il meraviglioso sito delle piramidi di Saqqara, vicino al Cairo, in una ridente campagna di palmeti mangiucchiata come un cancro dalle abitazioni abusive degli immigrati dell´Alto Egitto, stamberghe non finite di mattoni crudi, costruite di notte, senza autorizzazione, sottraendo spazio a terreni agricoli. In questa parte del governatorato di Giza ci sono appena state le elezioni: dappertutto si vedono i manifesti dei candidati salafiti, che hanno ricoperto tutti gli altri. Un grande caffè situato a un incrocio, di proprietà di un piccolo notabile del luogo, li sponsorizza: ha appeso sulla pensilina del suo locale un immenso telo con le foto dei candidati, i maschi con la barba lunga, le donne sostituite da dei fiori… A Saqqara, dove normalmente bisogna fare a gomitate per vedere le tombe dei faraoni, non c´è nessun altro visitatore: i barbuti hanno fatto paura ai turisti, alcuni salafiti hanno dichiarato che sarebbero andati negli alberghi a frantumare le bottiglie di alcolici.
Il primo Parlamento della rivoluzione sarà composto per tre quarti da deputati islamisti. Il partito Libertà e giustizia, il braccio politico dei Fratelli musulmani, ha preso il 45 per cento dei voti. Ma la vera sorpresa viene proprio dai salafiti, che hanno portato a casa più di un quarto dei suffragi. Negli immensi sobborghi abusivi dimenticati dallo sviluppo, dove milioni di persone da poco immigrate dalle campagne si ammassano e proliferano in catapecchie di fango, condannate a una sopravvivenza quotidiana con poche speranze, i salafiti stravincono. Quelli che non hanno nulla, i miserabili che nessuno ha mai ascoltato né capito, ma che sono sempre stati repressi e relegati ai margini da tutti i poteri che si sono succeduti, hanno detto un no assoluto a tutte le soluzioni proposte dagli uomini e si sono affidati alla legge islamica.
Quanto ai Fratelli musulmani, devono fare i conti con l´imminenza di una crisi economica senza precedenti in un paese di ottantacinque milioni di abitanti che verso marzo, secondo le aspettative della maggior parte dei banchieri, potrebbe dichiarare il default: raramente una formazione vittoriosa alle urne è sembrata tanto poco smaniosa di godere dei frutti della sua vittoria. E la gabbia dell´ideologia, che rassicurava militanti e quadri, e anche gli elettori che hanno votato per il cambiamento e contro il caos, è saltata sotto la spinta delle aspirazioni democratiche. Nel momento in cui saranno costretti a trasformarsi in gestori della cosa pubblica dovranno procedere a un aggiornamento difficile, tra l´incudine dell´intransigenza salafita e il martello delle realtà economiche e culturali del Ventunesimo secolo, di cui i ceti medi liberali, a dispetto del deludente risultato dei partiti che li rappresentano, sono i principali vettori.
Traduzione Fabio Galimberti
Diverse persone mi avevano detto che Ennahda avrebbe celebrato la sua vittoria elettorale in una grande moschea di epoca coloniale, nella città vecchia, la Masjid al-Fath. Fath in arabo significa “conquista”, “apertura all´Islam” di un territorio nuovo: un nome che sembrava quanto mai appropriato in quel primo venerdì di riconquista della Tunisia un tempo laica da parte di un partito islamista. Mi guida un mendicante (che forse mi prende per un convertito europeo alla ricerca di una moschea dove eseguire le sue devozioni). «Ha votato alle elezioni?», gli chiedo. «Naturalmente!». Per chi? «Per Ennahda, per chi altro!». «Che cosa si aspetta da Ennahda?». «Come prima cosa che le donne cambino modo di vestirsi, siamo un Paese musulmano!». Mi indica le donne che passano per strada, e le classifica in due categorie: muhtaram (rispettabili) e ghayr muhtaram (non rispettabili). Nel primo gruppo ci sono quelle velate e bardate, un terzo circa delle passanti; nel secondo gruppo le altre, e addita con un´acrimonia particolare verso quelle che sfoggiano un décolleté. Gli riferisco che ho appena sentito dire in conferenza stampa a Mohammed Ghannouchi, il mentore di Ennahda, che non intende legiferare sull´abbigliamento delle donne. Ma lui mi confida, con l´aria di chi la sa lunga: «Questo lo dice per non spaventare gli stranieri tutto d´un botto, si procederà per gradi!». Quando arriviamo alla moschea la preghiera è finita e sul sagrato sono rimasti pochi fedeli. Una grossa bancarella offre le opere dei principali sceicchi salafiti sauditi, che predicano un´ortodossia cavillosa e l´ubbidienza assoluta ai dirigenti di Riyad. Non c´è neanche un libro di Ghannouchi, o di qualcun altro di quegli autori che i salafiti stigmatizzano come «la setta smarrita dei Fratelli musulmani». Alle inferriate del recinto della moschea stanno appesi abiti da donna lunghi, niqab (il velo che copre il viso) e guanti di colore scuro. I venditori portano la tunica fin sotto le caviglie, la barba abbondante, il labbro rasato, lo zuccotto sulla testa.

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