In Libia senza onore

MONTI L’AFRICANO. Prima o poi il governo italiano doveva riprendere la strada di Tripoli. Una specie di Canossa. Solo che nel frattempo non ci sono più né il papa né l’imperatore e i contorni della riparazione sono confusi. A rigore, il vero referente e insieme antagonista – lo stesso che ci ha portato in guerra manipolando i motivi e gli obiettivi – non si trova neppure in Libia.

MONTI L’AFRICANO. Prima o poi il governo italiano doveva riprendere la strada di Tripoli. Una specie di Canossa. Solo che nel frattempo non ci sono più né il papa né l’imperatore e i contorni della riparazione sono confusi. A rigore, il vero referente e insieme antagonista – lo stesso che ci ha portato in guerra manipolando i motivi e gli obiettivi – non si trova neppure in Libia. Dopo aver piegato la testa assolvendo quasi senza discutere gli obblighi che derivavano dalla sua posizione geografica, l’Italia cerca di dimenticare le umiliazioni della servitù di passo e ambisce a ritrovare piuttosto le prerogative della vicinanza.
In teoria Italia e Libia dovrebbero riconsiderare le relazioni reciproche alla luce della nuova situazione.
Il Trattato del 2008 è stato messo da parte con un pretesto quando è scoppiata la rivolta in Cirenaica ed è stato definitivamente ripudiato quando la Nato ha preso le armi perché le basi in Italia erano indispensabili per condurre l’attacco finale contro Gheddafi. Si vedrà ora quali erano le clausole dell’intesa italo-libica che tanto scandalizzavano i benpensanti. La decenza vorrebbe che si partisse dall’impegno del respingimento dei profughi a cui la Libia doveva prestarsi per meritare la benevolenza dell’ex-colonizzatore. Si à già persa un’occasione visto che la risoluzione dell’Onu invocata con unanimità sospetta da tutti i Palazzi della politica prevedeva la protezione dei civili. Ma invece di soccorrere chi fuggiva dalla Libia in fiamme si preferì infierire sul bunker di Gheddafi. Si fa fatica a capire quale Libia sia emersa o emergerà dalla guerra. Se l’offensiva di Francia e Inghilterra aveva un senso, le potenze occidentali, rimaste a guardare ciò che succedeva a Tunisi e al Cairo limitandosi a convincere i presidenti-clienti a lasciare la carica sotto la spinta della piazza e della defezione degli alti comandi militari, hanno voluto dimostrare che l’Europa non ammette sbandate nel processo di transizione in Libia e forse in tutto il Nord Africa. In Libia non si è votato e chissà se e come si voterà. In Tunisia ed Egitto gli islamisti, usciti dalle moschee o tornati dall’esilio, hanno fatto incetta di voti a scapito delle forze, poco strutturate, che hanno animato per prime la protesta e che si illudevano probabilmente di interpretare la volontà generale. La sorpresa – delusione – di chi avrebbe preferito un risultato meno polarizzato delle elezioni riguarda la natura autentica di società che interagiscono con aree diverse: il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Africa. La rottura che si è determinata un anno fa in tutta la regione che per noi è stata e rimane la “quarta sponda” non è rivolta solo a una forma di “costituzionalizzazione” del potere e implica una ricomposizione di società in rapida mutazione per natalità, mentalità e consapevolezza. Può darsi che in Libia i “liberatori” stiano ancora valutando quale spazio riconoscere da una parte alla voglia di giustizia sociale e dall’altra al recupero dell’identità, cioè ai due propulsori delle “primavere arabe”, almeno finché le forze esterne non hanno fatto pesare un’agenda più interessata a non scalfire la dipendenza asimmetrica. La funzione di barriera contro l’islamismo che si erano attribuiti i governi che hanno gestito il capitalismo periferico nei paesi nordafricani non è più attuale come nel decennio scorso. Lontani da ogni tentazione estremista, i partiti che si richiamano variamente alla Fratellanza musulmana si presentano come un fattore di moderazione e di stabilità. Governare contro la volontà della metà e più dell’elettorato, se non dei cittadini, non sarebbe un bell’esordio per il processo di democratizzazione. L’Occidente è davanti a un bivio fra la diffidenza o una coalizione impropria che ricostituisca un ordine controllabile (se non altro per non sfidare troppo apertamente i grandi sostenitori dell’islam che possiedono il petrolio del Golfo, sicuramente più cari a Washington ma insostituibili anche per l’Europa). Ancora più di Egitto e Tunisia, la Libia si muove nelle strettoie di un’economia basata su una rendita a fonte unica. Per un governo come quello di Monti le regole del mercato sono un dogma ed è verosimile che l’Eni e gli altri aspiranti aspettino la normalizzazione per ottenere le concessioni a cui si ritiene di aver diritto. L’equivoco – o l’ alibi – del governo tecnico potrebbe mimetizzare ancora di più le scelte politiche che l’Italia, dentro o fuori l’Europa, dovrà esprimere in un Nord Africa scosso da fatti così straordinari. Il piccolo cabotaggio un po’ ipocrita dopo le distruzioni equivale a prolungare nel tempo i sottintesi fin troppo evidenti dell’operazione franco-britannica, non si sa fin dove riassorbita nell’alveo della Nato a cui si è voluto conferire la leadership dell’azione militare. Naturalmente in Italia non c’è nessuna forza politica che senta il dovere di sollevare questi temi come se i rapporti con il Sud del mondo da cui riceviamo l’energia non fossero altrettanto importanti dei compromessi con Bruxelles o degli alti e bassi delle borse. I rapporti con il Sud del mondo da cui riceviamo l’energia non sono meno importanti di quelli con Bruxelles. La «quarta sponda» ci riguarda da vicino

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