Non sarebbe piaciuto, a Oscar Luigi Scalfaro, essere definito come il Presidente a cavallo fra due Repubbliche, prima e seconda, come accade in molti dei commenti che gli sono stati dedicati. Non per il passaggio, s’intende, di cui egli fu effettivamente protagonista e guida, ma per la numerazione delle Repubbliche.
Non sarebbe piaciuto, a Oscar Luigi Scalfaro, essere definito come il Presidente a cavallo fra due Repubbliche, prima e seconda, come accade in molti dei commenti che gli sono stati dedicati. Non per il passaggio, s’intende, di cui egli fu effettivamente protagonista e guida, ma per la numerazione delle Repubbliche. La Repubblica, per lui, era una sola, quella della Costituzione; e non pronunciava mai il lemma “seconda Repubblica” senza premettere un “cosiddetta” o simili (“maldefinita”, disse una volta in un’intervista al manifesto). La pignoleria linguistica, va da sé, aveva una ragione politica: non solo per il fatto che soltanto una nuova Costituzione può dare luogo a una seconda Repubblica, ma perché Scalfaro non si piegò mai all’idea – e all’ideologia – dell'”eccezionalismo” di Berlusconi, ovvero al racconto della sua “discesa in campo” come inizio di un’era nuova e come riscrittura fattuale, anche se non formale, delle regole del gioco politico.
Questo spiega perfettamente la sua decisione che resta tutt’ora oggetto di controversia (e astio, da parte di Berlusconi e del Pdl), quella che lo portò nel ’94 a cercare una soluzione parlamentare della crisi del primo governo del Cavaliere (provocata dall’uscita della Lega dalla maggioranza), senza ricorrere alle elezioni come invece Berlusconi – convinto allora come adesso che l’unica legittimazione che conta sia quella popolare, e che i vincoli costituzionali non esistano – riteneva ovvio. Del resto, non siamo ancora e sempre allo stesso punto, sospesi fra le norme del parlamentarismo scritto in Costituzione e la prassi di una quasi-investitura diretta del premier? Se due mesi fa Berlusconi ha ingoiato la soluzione Monti con minor riottosità di quanto fece allora con Dini non è solo perché allora Dini fu sostenuto da una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne (il famoso “ribaltone”) e Monti oggi è sostenuto da tutti; è anche e banalmente perché stavolta un ritorno alle urne non l’avrebbe premiato, e la sua baldanza del 94 non c’è più.
La corretteza della procedura seguita allora dal Presidente nulla toglie, ovviamente, alla sua acclarata allergia politica al Cavaliere, quanto di più lontano e marziano potesse piombare sulla scena per uno che avesse la biografia di Scalfaro, e quanto di più insidioso per uno che, da costituente, la Carta del ’48 la sentiva come una creatura da difendere. Non smise di farlo, del resto, dopo il settennato, come dimostra il suo impeno militante al referendum del 2006 contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra.
«Io ho dovuto fare il chirurgo a Caporetto, non in una Asl modello», disse una volta in risposta a chi lo accusava di aver favorito una deriva presidenzialista interpretando in modo troppo “interventista” la figura del Capo dello Stato. Quell’interventismo, in verità, non avrebbe fatto difetto ai suoi successori, ma non va dimenticato soprattutto che era stato ben più marcato nel suo predecessore Francesco Cossiga. Quanto alla Caporetto, come non ricordare, e come restituire a chi non può ricordare, che cosa fu la stagione che va dal ’92, anno dell’insediamento di Scalfaro, al ’94? Non c’erano solo Tangentopoli e Mani pulite a far crollare uno dopo l’altro come birilli i pezzi del sistema politico; c’era stata Capaci, ci fu via D’Amelio, ci furono suicidi eccellenti e meno eccellenti per le inchieste anticorruzione, scoppiarono le ultime bombe non firmate. C’era, alle spalle, il sisma mondiale dell’89 con i suoi riflessi interni. C’era, emergente, una “nuova destra” a cui nel frattempo abbiamo fatto l’abitudine, ma che allora pareva un alieno spuntato non si sa come da non si sa dove, e che nella rottura del patto fondamentale trovava il suo cemento e la sua ragion d’essere. E c’era un centrosinistra in perenne trasformazione interna, che fra il 96 e il ’99 riuscì a consumare tre presidenti del Consiglio, Prodi D’Alema Amato, uno dopo l’altro.
Scalfaro tenne la barra. Lo si accusa di essere stato troppo tenero con i magistrati e in particolare con il protagonismo della Procura milanese, quando si rifiutò di firmare i decreti Conso e Biondi schierandosi di fatto a fianco della protesta della magistratura; ma sono agli atti alcune sue dichiarazioni contro «l’esaltazione soggettiva della propria funzione da parte di alcuni magistrati che si sono sentiti gli attori principali in scena, e in un certo senso lo erano». Ma lo erano, aggiungeva, non tanto per un loro eccesso di zelo, quanto per il difetto di moralità e di capacità della classe politica. Il vuoto della politica, e l’illusione ingegneristica di risolvere i problemi politici con riforme istituzionali, costituzionali ed elettorali estemporanne lo tormentavano. “C’è un vuoto enorme di politica- disse al manifesto subito dopo la scadenza del suo mandato – e la politica non sopporta vuoti: qualcuno li occupa, varie forze e molteplici, quelli che siamo soliti chiamare ‘i poteri forti’…C’è anche una rinuncia a far politica, che più che alla pace assomiglia a un mortorio». Vadeva lontano, il Presidente.
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