La partita più importante della storia? Olimpiadi del ’36, Perù batte Austria quattro a due. Sul palco d’onore c’era Adolf Hitler. Bigliettaio, dattilografo, operaio, fattorino, solo poi giornalista e infine scrittore. Sempre e comunque grande appassionato di calcio e di giustizia: “Più che a scuola, è nei caffé di Montevideo che ho appreso le lezioni della vita. La prima: l’arte è una menzogna che dice la verità . La seconda: le parole che meritano di esistere sono soltanto quelle migliori del silenzio”
La partita più importante della storia? Olimpiadi del ’36, Perù batte Austria quattro a due. Sul palco d’onore c’era Adolf Hitler. Bigliettaio, dattilografo, operaio, fattorino, solo poi giornalista e infine scrittore. Sempre e comunque grande appassionato di calcio e di giustizia: “Più che a scuola, è nei caffé di Montevideo che ho appreso le lezioni della vita. La prima: l’arte è una menzogna che dice la verità . La seconda: le parole che meritano di esistere sono soltanto quelle migliori del silenzio”
«Da bambino sarei voluto diventare un pittore. Cercavo di comprendere il mondo attraverso le immagini. Crescendo sentii che c´era una distanza troppo grande tra ciò che potevo e ciò che volevo fare. Ancora oggi però la mia memoria funziona per immagini». Effettivamente nei libri di Eduardo Galeano, costruiti attorno alla riscrittura di storie private, di cronache e miti collettivi, di episodi dimenticati e dolorosi, segreti e cicatrici del continente latinoamericano, l´atto dello sguardo, inteso come conoscere e riconoscere, è quasi sempre un presupposto. Talvolta lui stesso disegna le figure che accompagnano i suoi testi e nelle dediche agli amici tratteggia, a mo´ di autoritratto, un maialino con un fiore in bocca: «È un omaggio a un animale antieroico condannato a un triste destino di salame, sanguinaccio o salsiccia».
I primi passi nel giornalismo Galeano li compie pubblicando a soli quattordici anni caricature politiche su un settimanale socialista, El Sol, che siglava col nomignolo “Gius”, versione in castigliano del cognome del padre (Hughes). Quando cominciò a scrivere optò invece per quello della madre, Licia Esther Galeano. La famiglia apparteneva alla borghesia urbana su cui l´Uruguay aveva basato il suo sviluppo economico nei primi decenni del Novecento. Nato a Montevideo il 3 settembre del 1940, discendente della migrazione europea – con geni «italiani, gallesi, castigliani, tedeschi, un miscuglio incredibile» – dopo sei anni di scuola primaria e un solo anno di scuola secondaria abbandona gli studi, «in parte per una ragione economica e in parte», rivendica con orgoglio, «per il desiderio di libertà». Bigliettaio, dattilografo, operaio in una fabbrica di insetticidi, al seguito di un fotografo, e altro ancora, sempre spinto da quell´ansia di cercarsi e trovarsi che l´ha reso da adulto un camminatore instancabile. «I miei libri – spiega – nascono da questo girovagare senza sosta», come se non si finisse mai di vedere. L´ultimo impiego prima di vivere di solo giornalismo fu il fattorino in una banca: «Dopo quattro anni capii che non faceva per me. Lì appresi che i principali rapinatori di banche sono i banchieri stessi ma nessun allarme suona mai per loro». Definisce il cattolicesimo l´influenza più profonda dell´infanzia: «Fino a tredici anni ho creduto nel messaggio divino. Per sua fortuna la Chiesa si è salvata e io ho intrapreso altri percorsi. Però c´è sempre qualcosa che lavora sul fondo della botte di vino e questa volontà di trascendenza si è trasformata in altro. Oggi mi sento vicino alle religioni indigene, le più disprezzate eppure più umane di quelle che mi hanno formato». La lettura del Capitale – «per intero» sottolinea – avvenne a casa di amici, in gruppo e fu fondamentale per la sua formazione. «Ci faceva lezione Enrique Broquen, un professore argentino che tutte le settimane per tre anni ha preso l´aereo da Buenos Aires per venire a spiegarci il marxismo», in una versione non leninista, vicina all´insegnamento di Rosa Luxemburg. «Penso che la grande tragedia del secolo scorso sia stata il divorzio tra libertà e giustizia. Una parte del mondo ha sacrificato la libertà in nome della giustizia, e l´altra parte ha fatto l´opposto. La migliore eredità di Rosa sta nell´idea che libertà e giustizia siano due fratelli siamesi. Ricucire quel legame rappresenta la grande sfida di questo nuovo secolo». I caffè di Montevideo, frequentati da adolescente, sono stati la sua università: «I miei primi maestri furono i narratori anonimi seduti ai tavolini. Un giorno un uomo cominciò a descrivere una battaglia durante la guerra civile. A scuola la storia mi sembrava un mondo di statue, senza carne né sangue. Ma lui raccontava con tanta intensità che sentivo lo scalpiccìo degli zoccoli dei cavalli e il clangore delle armi. Era trascorso più di un secolo, non poteva averla vista con i suoi occhi. Così appresi la mia prima lezione: l´arte è una menzogna che dice la verità. Nel campo erano tutti morti, proseguì l´uomo, e a un certo punto si imbatté in un ragazzo che pareva un angelo tanto era bello. Aveva le braccia in croce e una bandana a sorreggere i capelli. Sopra c´era scritto “Per la patria e per lei”, cioè la sua donna; la pallottola che l´aveva ammazzato era entrata nella parola “lei”. Seconda lezione: quello che è successo una volta attraverso la magìa del racconto accade nuovamente».
A ventotto anni diventa direttore di un quotidiano, Época. «È stata una delle mie tante pazzie. Di mattina curavo le pubblicazioni dell´università e il pomeriggio andavo al giornale dove oltre agli editoriali mi divertivo a scrivere l´oroscopo. Consigliavo sempre di peccare». Scriveva anche di calcio, la sua grande passione: «In quegli anni era malvisto dagli intellettuali di destra e di sinistra: per i primi era la prova che il popolo pensava con i piedi, per i secondi era colpevole di non far pensare il popolo». Una delle partite per lui più significative fu giocata alle Olimpiadi del ´36, dal Perù contro l´Austria, paese d´origine di Hitler che assisteva dal palco d´onore. «Fu una vera umiliazione. Il Perù si impose 4 a 2, l´arbitro annullò tre gol ma non riuscì a evitare la sconfitta. La notte stessa le autorità olimpiche annullarono la partita. Non è solo la disfatta di un potente a renderla bellissima, mi sembra anche pedagogica: se la realtà non piace si decreta che non esiste, che è la specialità di molti dirigenti dello sport internazionale. E poi è una storia di dignità, di cui oggi c´è un gran bisogno. L´unica frontiera in cui ho sempre creduto è quella che separa gli indegni dagli indignati».
Nel giugno del 1973 ci fu un colpo di stato in Uruguay. Galeano viene imprigionato e dopo una decina di giorni rilasciato perché, precisa sornione, «non avevano alcuna prova». Se ne andò a Buenos Aires dove fondò Crisis, una rivista che ebbe successo e per questo fu poi stroncata dalla dittatura. «La cultura veniva intesa come comunione collettiva, non solo quella professionale ma anche le mille e una espressioni della cultura anonima, che la gente fa, senza saperlo, scrivendo sui muri o parlando intorno a un falò. Alcuni ci rimisero la pelle». Avevano formato una squadra di calcio e ogni mercoledì mattina se ne andavano al campo del Palermo «i cui cancelli erano allora sempre aperti». Il suo ruolo era mezzala destra, più avanti che dietro: «Ero il peggiore di tutti ma a nessuno importava perché giocavamo per il piacere di farlo e non per il dovere di vincere».
I militari arrivarono poi anche in Argentina, nel ´76, secondo il disegno pianificato dagli Stati Uniti per i quali la presenza di governi democratici in quella parte del mondo era una cattiva notizia. Inserito nella lista degli uruguagi da eliminare non gli restò che l´esilio, dapprima in Brasile e poi in Spagna, un periodo, ricorda, di penitenza: «Convertire questo tempo lontano dalla mia terra e dalla mia gente in qualcosa di creativo fu la mia sfida. Mi venne l´idea di raccontare la storia delle Americhe attraverso brevi narrazioni, il che implicava assidue ricerche in biblioteca. Ci misi undici anni a finire Memoria del fuoco», grandioso affresco che parte dai miti precolombiani della creazione e in cui compaiono campesinos e dittatori, furfanti e figure storiche, eroi e visionari. Solo nel 1985, una volta caduta la dittatura, Galeano poté fare ritorno in patria.
Riscattare e recuperare la memoria collettiva è ancora oggi il suo imperativo: «La convinzione di essere la voce di quelli che non l´hanno è però un grave errore poiché tutti abbiamo una voce. Il problema è che non sempre viene ascoltata. Dobbiamo sentire cosa hanno da dire gli invisibili, le donne, i poveri, perché sono le voci che contrastano con la voce del potere, questa sì eco di echi, ripetizione all´infinito di una versione bugiarda della realtà». Nelle ultime opere (Il libro degli abbracci, Specchi), s´è accentuata la sinteticità delle sue narrazioni e la vocazione alla nitidezza: «Tendo ad assomigliare a Juan Carlos Onetti», spiega, che fu insieme a Juan Rulfo uno dei suoi maestri. «Due uomini dal carattere difficile. Due figure imponenti della letteratura eppure così timidi. Quando lo andavo a trovare, Onetti mi offriva un vino che causava una cirrosi istantanea e mi impastava la bocca, sicché mi chetavo subito. Fumava come un turco e per dare lustro alle sue parole mentiva attribuendole a un proverbio cinese o a un detto etrusco. Una volta mi disse: le uniche parole che meritano di esistere sono quelle migliori del silenzio. Non solo gli scrittori ma anche i politici dovrebbero imprimerselo nella mente. Il silenzio è un linguaggio perfetto ed è dura per la parola competere. Per questo riscrivo più volte un testo finché non sento che è migliore del silenzio». I suoi libri sono il frutto di un ossessivo lavoro di lima, «perché sono nato nel segno della Vergine, tutti maniaci-perfezionisti». Rulfo invece dopo La pianura in fiamme e Pedro Paramo «non pubblicò praticamente più nulla. Scrisse quello che doveva e si ammutolì come uno che ha fatto l´amore nella migliore maniera e poi si addormenta nella camera da letto. Un giorno, nella sua casa in Messico, prese una lavagna a due facce che aveva da un lato una penna e dall´altra un cancellino: si scrive con questa, mi disse indicando la penna, ma soprattutto con quest´altra, con il cancellino. Penso di essere stato un buon allievo».
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