Riforma o rivoluzione?, si interroga nel libro uscito in questi giorni che porta proprio questo titolo, Enrique Ubieta Gà³mez, saggista organico al governo e al Partito comunista. Il tema riguarda la società cubana e l’insieme di misure economiche e sociali decise lo scorso anno dal sesto congresso del Pc cubano e progressivamente messe in marcia dal governo del presidente Raàºl Castro con lo scopo di «modernizzare» il modello socialista cubano
Riforma o rivoluzione?, si interroga nel libro uscito in questi giorni che porta proprio questo titolo, Enrique Ubieta Gà³mez, saggista organico al governo e al Partito comunista. Il tema riguarda la società cubana e l’insieme di misure economiche e sociali decise lo scorso anno dal sesto congresso del Pc cubano e progressivamente messe in marcia dal governo del presidente Raàºl Castro con lo scopo di «modernizzare» il modello socialista cubano La tesi di Ubieta è che questo corpo di misure (apertura al lavoro privato, anche salariato, e a forme cooperative di proprietà e produzione; concessione di micro-finanziamenti al settore privato; possibilità di vendere e comprare case e auto…) s’inserisce nella linea della rivoluzione messa in marcia da Fidel nel 1959 e non costituisce l’inizio di una fase di riformismo, movimento che storicamente qui a Cuba è legato a tesi di subordinazione politica agli Usa. Ma tali riforme, che modificano la struttura economica e produttiva del paese e che avranno – e già si avverte- un forte impatto sociale, sono sufficienti a «modernizzare il socialismo cubano»? Secondo altri analisti – dentro Cuba soprattutto legati alla chiesa cattolica – il Pc affronta da anni (dal «periodo speciale» seguito alla fine dell’Urss nel ’91) una crisi di egemonia (per dirla gramscianamente), espressa in una crisi di consenso e legittimità del vertice politico, una crisi di leadership carismatica (col ritiro di Fidel) e una crisi di valori etico-politici. Il complesso di riforme e la loro messa in atto diventa dunque il banco di prova del Pc (richiesto anche da forze, come la chiesa, critiche ma non in opposizione al governo) per stabilire se è in grado di elaborare correttivi che permettano di superare tale crisi e di articolare – rimanendo sempre in tema gramsciano – un rinnovato blocco storico che legittimi una nuova egemonia. Questo in sostanza – anche se non dichiaratamente – è il compito che devono affrontare gli 811 delegati del Partito comunista di Cuba che – in rappresentanza di 800.000 iscritti, su una popolazione di poco più di undici milioni di abitanti – si sono riuniti ieri nella prima conferenza nazionale del Pcc, fortemente voluta dal presidente Raúl. Il lavoro preparatorio è stato lungo e ampio. Il documento di base della Conferenza è stato discusso in circa 65.000 riunioni dei nuclei del partito e dei comitati di base dell’Unione dei giovani comunisti. I militanti – informa il quotidiano del partito, Granma – hanno «espresso più di un milione di opinioni che hanno portato alla richiesta di modificare 78 dei 96 obiettivi contenuti nel documento di base e di incorporarne altri cinque». Prioritario, secondo Granma , è dare spazio alla partecipazione e al vero dibattito opponendosi alla «cultura del falso unanimismo e opportunismo», di favorire il rinnovamento del vertice del partito rendendolo più omogeneo alla società mediante una maggiore quota di donne, giovani e neri (in base al merito) e limitando (al massimo di due periodi di cinque anni) la durata delle cariche del vertice, sviluppare e approfondire i fondamenti teorici del modello economico cubano, mettere al bando la retorica e il trionfalismo dei mass media in favore di un giornalismo obiettivo e di indagine.
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