Contro il mito delle radici

Quella falsa metafora biologica che lega tradizione e identità .    L’ultimo saggio di Maurizio Bettini è sull’invenzione delle origini Qui lo studioso ci spiega perché queste tesi sono pericolose 

Quella falsa metafora biologica che lega tradizione e identità .    L’ultimo saggio di Maurizio Bettini è sull’invenzione delle origini Qui lo studioso ci spiega perché queste tesi sono pericolose 

Nel nostro dibattito culturale sempre più frequentemente ricorre l´associazione fra tradizione e identità, quasi che l´identità collettiva – l´identità di un certo gruppo – dovesse essere concepita come qualcosa che deriva direttamente e unicamente dalla tradizione. Una delle affermazioni oggi più circolanti è proprio la seguente: «l´identità si fonda sulla tradizione». Basta rammentare gli anatemi che negli scorsi anni sono stati lanciati contro l´immigrazione, in particolare islamica, e i mutamenti culturali che da essa sarebbero provocati. Ora, il rapporto di causa / effetto che viene stabilito fra tradizione e identità – l´identità è prodotta dalla tradizione – emerge direttamente dalle stesse metafore che vengono usate per parlarne. Quando si vuole indicare la tradizione culturale di un gruppo o di un paese, infatti, l´immagine più ricorrente è quella delle radici. Queste sono le nostre radici, si dice, questo dunque siamo “noi”. Basta ricordare l´acceso dibattito relativo alla proposta di inserire nel preambolo della costituzione europea una menzione delle radici cristiane dell´Europa. L´immagine arboricola intendeva sottolineare il rapporto di stretta interdipendenza che, a parere dei sostenitori di questa tesi, legherebbe fra loro la cultura europea da un lato, il cristianesimo dall´altro. Esempi ulteriori della metafora delle radici possiamo poi attingerli ai discorsi pronunziati dal presidente Marcello Pera, alcuni passaggi dei quali hanno fatto anzi particolarmente discutere nel recente passato; mentre il paradigma metaforico arboricolo compare, sempre in prospettiva identitaria, nel manifesto educativo della Scuola Bosina, un´istituzione di ispirazione leghista sorta anni fa in provincia di Varese: «gli uomini sono come gli alberi» vi si legge «se non hanno radici sono foglie al vento e i bambini sono i semi che devono trovare il nutrimento dalla (sic) terra in cui vivono per diventare querce secolari, di quelle che affrontano le tempeste della vita rimanendo sempre salde al (sic) terreno».
In questa selva di radici identitarie c´è un aspetto generale della questione che merita di essere messo in evidenza: le immagini non sono oggetti neutri, anzi, molto spesso hanno la capacità di condizionare fortemente la nostra percezione della realtà. Ciò che definiamo “metafora” non è solo un ornamento del discorso, è anche un potente strumento conoscitivo. Così accade anche nel caso delle radici. Questa immagine ha infatti la capacità di suggestionare fortemente qualsiasi discorso su identità e tradizione, e per un motivo abbastanza semplice: in un campo così astratto come quello delle determinazioni filosofiche o antropologiche, l´immagine delle radici permette di sostituire il ragionamento direttamente con una visione. Diceva già Cicerone nell´Oratore: «ogni metafora… agisce direttamente sui sensi e soprattutto su quello della vista, che è il più acuto… le metafore che si riferiscono alla vista sono molto più efficaci, perché pongono al cospetto dell´animo ciò che non potremmo né distinguere né vedere». Nessuno ha mai visto la propria tradizione, tantomeno avrà visto la propria identità, ma tutti nella loro vita hanno visto delle radici. In una discussione sulla tradizione, anche il più accanito dei tradizionalisti avrebbe difficoltà a dirci da che cosa sia concretamente costituita la tradizione di cui parla. Lo stesso discorso vale per quella cosa che chiamiamo identità. Ecco il motivo per cui è molto meglio spostare tutto sul piano della metafora, e far balenare di fronte agli occhi dell´ascoltatore semplicemente delle radici.
Ma che cos´hanno poi, di così efficace, queste radici? Come spiegava il retore Trifone, fra i quattro tipi di metafore un posto di rilievo spetta a quello che procede «dagli esseri animati a quelli inanimati», attribuendo con ciò caratteristiche vitali a oggetti o concetti che di vivo non avrebbero proprio nulla. Ora, quando si designano con il termine di radici concetti astratti come la tradizione, si fa per l´appunto questo: si procede «dall´animato all´inanimato», introducendo la vita là dove di per sé non ci sarebbe. Tramite questa immagine vitale, la tradizione viene chiamata a far parte addirittura dell´ordine naturale, e dall´intrinseca validità di quest´ordine – chi oserebbe mai contrastare la natura? – riceve automaticamente anche la propria giustificazione. Le radici stanno immerse nella terra, il luogo da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna; le radici sostengono la pianta, che altrimenti cadrebbe al suolo; e soprattutto le radici trasmettono al tronco, ai rami e alle foglie il nutrimento di cui hanno bisogno. Tramite l´immagine delle radici, e dunque dell´albero, anche la tradizione si muta in qualcosa di biologicamente primordiale, che sta immerso nella terra, qualcosa che sorregge e nutre – chi? Ovviamente noi, la nostra identità. Il rapporto di determinazione fra tradizione e identità assume in questo modo l´aspetto di una forza che scaturisce direttamente dalla natura organica. Se un albero è quel certo albero perché è cresciuto da quelle radici, noi siamo noi perché siamo cresciuti dalle radici della nostra tradizione culturale. In un certo senso, è come se noi non potessimo essere altrimenti: se si dà retta a questa metafora, la nostra identità finisce ineluttabilmente per essere determinata dalle nostre radici, cioè dalla tradizione cui si appartiene.
Inutile dire che il ricorso alla metafora arboricola punta a questo scopo: costruire un vero e proprio dispositivo di autorità, che, attraverso i contenuti evocati dall´immagine, si alimenta di nuclei semantici forti quali la vita, la natura e la necessità biologica. Selezionando alcuni momenti della nostra storia culturale a scapito di altri – Gerusalemme o Atene, la Roma dei papi, ma non p. es. la Parigi dei Lumi – e presentandoli sotto l´immagine di radici, si attribuisce loro l´autorevolezza che promana dalla natura, dalla necessità biologica e così via. Una volta che questo dispositivo di autorità sia stato messo in movimento, la conseguenza non può che essere la seguente: l´identità culturale predicata attraverso la metafora delle radici viene estesa a un intero gruppo, indipendentemente dalla volontà dei singoli. Un ramo può forse decidere di non appartenere all´albero con cui condivide le radici o, addirittura, di non essere un ramo? Una volta “radicati” in una certa tradizione, scegliere autonomamente la propria identità culturale diventa impossibile, ci si può solo riconoscere in quella che altri hanno costruito per noi.

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