Intervista a Donald Sassoon. Parla lo storico inglese: in Italia il dibattito è condizionato da un pensiero debole, e quindi subalterno. Tempo fa non sarebbe accaduto, il Pci era più cosmopolita
Studioso del movimento operaio e del Labour. È autore di diversi saggi sulla storia d’Italia, fra cui «Togliatti e la via italiana al socialismo» (Einaudi) e «Cento anni di socialismo» (Editori Riuniti)
Intervista a Donald Sassoon. Parla lo storico inglese: in Italia il dibattito è condizionato da un pensiero debole, e quindi subalterno. Tempo fa non sarebbe accaduto, il Pci era più cosmopolita
Studioso del movimento operaio e del Labour. È autore di diversi saggi sulla storia d’Italia, fra cui «Togliatti e la via italiana al socialismo» (Einaudi) e «Cento anni di socialismo» (Editori Riuniti)
Le cose vanno chiamate per ciò che sono, e analizzate per la loro portata, evitando di restare prigionieri, sia sul piano politico che su quello culturale, di un pensiero così debole da apparire subalterno. Non c’è dubbio che siamo di fronte alla crisi del capitalismo occidentale, sia nella sua versione americana che in quella europea, e mi riferisco in particolare ai Paesi dell’eurozona. E un pensiero critico deve essere all’altezza di questa crisi». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici e studiosi della sinistra europea: il professor Donald Sassoon, allievo di Eric Hobsbawm, ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra. Profondo conoscitore della realtà, politica e intellettuale, italiana, Sassoon ricorda, da storico, che «con la fine del Pci è tramontata una certa visione cosmopolita, che alcuni avevano bollato come velleitaria. Ma è bene avere una intelligente presunzione cosmopolita, perché ciò resta il migliore antidoto ad un realismo provinciale, miope, per il quale è inutile che l’Italia si preoccupi troppo per ciò che succede nel mondo, tanto non può incidere…».
Professor Sassoon, nel mondo, a partire dall’America, si discute della crisi del capitalismo, argomento che appariva tabù…
«Andiamo con ordine. Da storico vorrei far notare che di crisi del capitalismo ce ne sono state altre. Non vorrei che quelli che si considerano “nemici del capitalismo” cantassero vittoria. Perché a me sembra che ciò che è accaduto negli ultimi tempi dimostri al contrario il “trionfo del capitalismo”…».
Affermazione forte…
«Vede, un sistema economico-sociale ha veramente vinto non quando va tutto bene, bensì quando è in crisi e tutti quanti, da destra a sinistra passando per il centro, cercano in ogni modo di salvarlo. Certo, su come salvarlo esistono differenze, ma nessuna forza significativa porta avanti un’alternativa di sistema. I riferimenti continui che si fanno alla crisi del ’29 ci ricordano che negli anni Trenta esisteva un punto di riferimento “altro” sul piano sistemico: il comunismo e l’Urss. Oggi invece abbiamo lo spettacolo assolutamente sorprendente che 20-30 anni fa nessuno si sarebbe sognato di prevedere dei dirigenti del Partito comunista della Repubblica popolare cinese che fanno la predica ai dirigenti americani perché costoro non si preoccupano abbastanza delle sorti del capitalismo mondiale. Nella stessa direzione va il cancelliere dello Scacchiere britannico quando offre la City, e dunque il mondo finanziario britannico, come principale punto di riferimento per una avanzata globale del capitalismo cinese».
Restiamo sul dibattito internazionale. Secondo lei è appropriato, sul piano analitico, parlare di modello in crisi o di fallimento del neoliberismo?
«Assolutamente sì. Questa crisi mette in discussione il modello di deregulation che fu portato avanti principalmente dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, e in Gran Bretagna sia dai conservatori che dai laburisti. La questione cruciale oggi è definire una “regulation” che non può che essere internazionale, e qui le cose si complicano, perché a questo livello mancano le istituzioni adeguate, istituzioni che abbiano legittimità politica. Quanto ai concetti “forti”, non si devono avere remore nel definire le cose per quel che sono: il capitalismo occidentale è in crisi, e lo è sia nella sua versione americana che in quella europea. Come ci ricordano i marxisti, le crisi sono occasioni per un rimescolamento generale delle carte. Il gioco continua ma non necessariamente con gli stessi giocatori».
Un gioco che in Italia appare quanto meno titubante, rispetto a quello che si è aperto negli Usa, in Gran Bretagna e in Francia. Cosa nasconde questa incertezza, professor Sassoon? «Vede, nei Paesi che lei ha citato, se non necessariamente a livello della politica ma di certo nell’intellighenzia, si è abituati a pensare in modo globale. Per la Francia e la Gran Bretagna l’epoca degli imperi è finita da molti anni, ma la pratica dell’impero lascia una mentalità che porta a guardare a ciò che accade nel mondo come a qualcosa sulla quale occorre ragionare e, forse, intervenire. Un esempio recente: la Libia. Quando è cominciata la lotta armata contro Gheddafi, Londra e Parigi si sono subito chieste se intervenire o no. Nessun altro Paese, neanche l’Italia che pure aveva un rapporto storicamente e geograficamente stretto con Libia, si è posto questo problema con la stessa determinazione».
Mentre nel mondo si discute nel merito, in Italia il solo parlare di crisi del capitalismo è un tabù che in pochi osano infrangere.
«Lungi da me passare per un nostalgico del tempo che fu, tuttavia ricordo che quando c’era il Pci, i congressi del partito o le riunioni del comitato centrale, si aprivano sempre con una discussione sulla situazione mondiale, quasi come se facesse parte della politica quotidiana il chiedersi e ragionare sul rapporto che esisteva tra ciò che succede nel mondo e l’Italia. È come se con la venuta meno del Pci sia tramontata questa visione cosmopolita, che alcuni hanno frettolosamente liquidato come velleitaria. Ma l’esercizio di una critica fondata, di programma e progetto, allo stato di cose esistente resta, a mio avviso, una sfida irrinunciabile, affascinante. Se non si vuole restare prigionieri di un certo provincialismo succube, spacciato per realismo, per il quale è inutile che l’Italia si preoccupi troppo per ciò che succede nel mondo, e nemmeno provi a darne una lettura sistemica, tanto su quella realtà non può incidere. Ma questo non è realismo, è subalternità culturale oltre che politica. Ogni tanto vale la pena essere intelligentemente presuntuosi. E questo è il momento di provare ad esserlo».
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