SAGGI «Sulla paura. Fragilità , aggressività , potere», un saggio di Danilo Zolo
SAGGI «Sulla paura. Fragilità , aggressività , potere», un saggio di Danilo Zolo
Un confronto serrato con l’antropologia filosofica e il pensiero politico moderno per mettere a fuoco temi quali il nuovo disordine mondiale, la cittadinanza, la guerra. E cercare una via di uscita dall’ordine neoliberale «Che cos’è l’uomo?»: questa è la domanda intorno a cui si è costruito un settore della filosofia, chiamato «antropologia». Per Aristotele, l’uomo apparteneva al genere degli animali, ma da essi si distingueva per una differenza specifica, ossia il possesso di un’anima razionale, che si aggiungeva a quella vegetativa e sensitiva posseduta anche dalle altre bestie. Più materialista, Anassagora individuava l’elemento decisivo nel fatto che gli uomini avessero le mani al posto di semplici zampe. Il ricorso all’animale come termine di raffronto per definire la specificità dell’uomo attraversa i secoli e si ripropone nella fase aurea dell’antropologia filosofica, nella Germania dei primi decenni del Novecento. Sorprendentemente, però, a quel punto a caratterizzare l’uomo non era un più ma un meno, non il fatto di possedere qualcosa che gli altri animali non avevano ma, al contrario, una mancanza. Valorizzando le posizioni elaborate dal biologo Johannes von Uexküll sulla relazione fra animale e ambiente e la loro rielaborazione in chiave filosofica avviata da Max Scheler, Arnold Gehlen, la cui opera maggiore, L’uomo, è stata recentemente ristampata a cura di Vallori Rasini (mimesis, pp. 486, euro 30), propone una caratterizzazione dell’uomo a partire dalla sua indeterminatezza.
Un habitat per sopravvivere
L’uomo è l’animale privo di ambiente, un essere dispersivo, la cui attenzione si propaga in una moltitudine di direzioni. Mentre l’animale si adatta all’ambiente, l’uomo lo trasforma colmando la propria incompiutezza attraverso il ricorso all’esteriorizzazione di un numero crescente di funzioni, a esoneri nel lessico di Gehlen, ossia ad artefatti come utensili e istituzioni.
Il confronto con l’antropologia filosofica costituisce la premessa del percorso che in Sulla Paura. Fragilità, aggressività, potere (Feltrinelli, pp. 126, euro 15) sviluppa Danilo Zolo, autore negli ultimi decenni impegnato in una multiforme ricerca animata da spirito critico sulla cittadinanza, i limiti della democrazia nell’età della «globalizzazione», le istituzioni del nuovo «disordine mondiale». È in tale contesto che è maturato l’interesse per un sondaggio a più ampio raggio rispetto a una disposizione emotiva che come un’ombra sembra gravare costantemente sia sulla dimensione individuale sia su quella collettiva: la paura. Da qui il confronto con l’antropologia filosofica di Gehlen e Plessner, alla ricerca di una cornice teorica in grado di rendere conto della paura nelle sue diverse declinazioni. L’animale seleziona in ciò che lo circonda un numero limitato di percezioni e a partire da esse costruisce il suo ambiente, estraneo agli altri mondi che lo intersecano. Diversamente, l’uomo, per il basso grado di specializzazione funzionale e percettiva che lo caratterizza, si confronta con un contesto sempre complesso e imprevedibile, caratterizzato da un numero esorbitante di variabili. Il ricorso a protesi ed esoneri gli permette di costruirsi un mondo, di arginare rischi e pericoli. Ma tale «dimora» è sempre precaria, passibile di interferenze e destabilizzazione: da qui la paura come componente costitutiva dell’apertura al mondo che caratterizza l’uomo come animale carente.
Proseguendo, il volume si sofferma causa sul secondo termine che ne scandisce il sottotitolo, quello dell’aggressività come correlato della paura. A entrare in gioco è soprattutto l’aggressività intraspecifica, un fenomeno che una consolidata tradizione considera, nella sua forma estrema, della lotta fino alla morte, esclusivo appannaggio degli umani. Le letture del fenomeno suscitano in Zolo riserve allo stesso tempo teoriche e politiche. A suscitare il suo scetticismo è il provvidenzialismo darwiniano che fa da sfondo a tali analisi.. L’aggressività e la sua forma collettiva, la guerra, infatti, sono viste come elementi indispensabili di una competizione fra gruppi umani differenziati culturalmente e territorialmente dai cui esisti selettivi viene fatta dipendere la possibilità di un loro possibile superamento.
Il potere è il terzo termine del percorso intrapreso da Zolo. La relazione fra paura e legame politico è un classico della filosofia politica. Vengono subito alla mente Machiavelli, ai cui occhi per il principe che è più efficace farsi temere che amare, oppure Hobbes, per il quale la paura è una fonte di razionalità, in quanto spinge i singoli a relativizzare desideri e preferenze in vista della del bene primario, la conservazione della vita. Più recentemente, una linea della filosofia politica anglofona, da Judith Shklar a Raymond Williams, ha individuato nella paura, e non nei diritti naturali o le virtù, l’unico fondamento valido per il liberalismo. Scendendo a un livello più sociologico si potrebbe osservare come l’accordo sulla definizione legittima della paura, e di conseguenza sulla forma di sicurezza che si è chiamati a fornire ai sudditi o ai cittadini, costituisca una delle poste in palio con cui si misura ogni opzione politica. Abbiamo avuto la paura delle masse, base su cui a lungo hanno costruito il loro consenso le élite liberali. Alla lunga vicenda del movimento operaio, invece, si connette il tentativo di declinare la sicurezza in termini di garanzie sociali a fronte dei rischi derivanti dall’economia di mercato e da altri inconvenienti della vita. La crisi e la delegittimazione del welfare state ha poi ritrasferito sui singoli un numero crescente di rischi, ridisegnando le biografie all’insegna dell’incertezza. Da qui, secondo Zolo, la ridefinizione dell’agenda della paura da parte delle élite politiche dei paesi occidentali, incentrata sulla drammatizzazione di rischi, quali la microcriminalità, gli stranieri, il terrorismo, più facili da gestire in termini di consenso e passibili di non urtare la suscettibilità di interessi consolidati.
Pessimisti e indignati
Nessuna riduzione di complessità, nessun esonero, nessun ottimismo evoluzionista può eliminare la paura dall’orizzonte dell’animale carente. Questo il messaggio che Zolo consegna alle conclusioni del suo libro. Al di là di contingenze e manipolazioni, l’uomo sa di dovere morire, e da tale condizione deriva la sua costrizione a fare i conti con la paura e con l’aggressività che ne deriva. Da ciò, però, non si trae un invito alla rassegnazione quanto la rivendicazione di un atteggiamento al contempo scettico e critico, un «pessimismo dell’indignazione, della solidarietà, della rivolta». Tuttavia, proprio a partire dagli snodi teorici su cui Zolo richiama l’attenzione si possono immaginare anche altri percorsi. In proposito un interessante punto di partenza può essere costituito da una strana coincidenza. Fra i lettori appassionati di von Uexküll troviamo Heidegger e Deleuze, ossia i due filosofi che nel corso del Novecento hanno rispettivamente più allontanato e avvicinato l’uomo dall’animale. Per Heidegger è proprio la morte a contribuire in maniera decisiva a stabilire una cesura ontologica fra l’animale «povero di mondo» e l’uomo. Deleuze, invece, si spinge su un terreno diverso, in cui la plasticità dell’animale carente non si chiude sulle determinazioni trascendenti dell’«essere per la morte». Che sia questa la traccia filosofica per sottrarre le paure all’ipoteca di un’unica Paura?
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