La fortezza sospesa del nostro presente

Cinema «Il Castello» di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, un anno all’aeroporto di Malpensa, simbolo di una società  contemporanea dominata dalla ripetizione e dal controllo

Cinema «Il Castello» di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, un anno all’aeroporto di Malpensa, simbolo di una società  contemporanea dominata dalla ripetizione e dal controllo

Quattro stagioni, quattro capitoli. Lo sguardo dei registi entra in una realtà invisibile, un luogo in cui l’ossessione della sicurezza è divenuta principio di realtà Arrivi, partenze, i gesti del lavoro, della violenza, di una vita fuori dal tempo Il titolo richiama Kafka ma questo guardare ai testi fondamentali della letteratura è per Massimo D’Anolfi e Martina Parenti quasi un gioco: il loro primo film insieme si chiamava Promessi sposi (2007), il precedente ricalcava il dickensiano Grandi Speranze (2009). Stavolta però l’universo kafkiano sembra «entrare» anche nelle immagini, Il Castello che ci raccontano è l’aeroporto di Malpensa, modello esemplare di quelle fortezze contemporanee organizzate a occidente e a oriente per autodifendersi e immunizzarsi dai pericoli esterni. Che possono avere l’aspetto di una valigia abbandonata, sulla quale scatta immediato l’allarme e l’intervento della polizia. O gli occhi sperduti di un passeggero « extracomunitario», le mani veloci di un addetto alla sicurezza, le domande arroganti di un poliziotto e le risposte paradossali di chi sarà, qualsiasi cosa dica, sempre un colpevole.
Ma anche i tempi sospesi nei lunghi corridoi, tempi di attesa e di un falso movimento, il quotidiano di chi nell’aeroporto ha trovato una casa e lì mangia, dorme, si fa il colore ai capelli senza rinunciare al piacere vezzoso del rossetto. Gli addestramenti alla sicurezza, parola sulla quale poggia quell’universo di silenzi e voci metalliche, di luci infinite e sprazzi improvvisi.
I due registi hanno girato un anno a Malpensa divenendo presenze invisibili nello spazio dell’aeroporto, il loro sguardo entra laddove nessuno di noi, nella nostra esperienza di viaggiatori riesce a arrivare, e compone unendo quei dettagli più invisibili una cartografia appassionante del presente. Il riferimento, come già per gli altri film, è quello del cinema diretto, che in ognuna delle situazioni con cui si sono confrontati permette di rivelarne i paradossi, il conflitto, le contraddizioni. Qui forse in modo più esplicito, anche se in nessuno degli altri sono mai intervenuti provocando delle reazioni. Il loro è un lavoro sulla durata e sul tempo, tutto è nella pazienza attenta e consapevole dell’osservazione wisemaniana della realtà: l’ umorismo quasi da commedia del viaggio in Italia tra i molti aspetti del contratto matrimoniale. La lucida ironia nerissima dello scontro di economie, tra le «Grandi speranze» dei giovani imprenditori italiani, cresciuti a lezioni di spregiudicato liberismo da una parte, e il modello capitalista cinese dall’altra, un film che rivisto oggi, di fronte al crollo delle borse nostrane, al ricatto Bce e alla megapotenza asiatica è ancora più preveggente.
Nel Castello è la tonalità asettica, o presunta tale di quello che specie dopo l’11 settembre, appare come il luogo per eccellenza del controllo, dove anche la coscienza più critica su ciò che è rispetto della privacy e dell’individuo, sfuma quasi scomparendo nella celebrazione della paranoia.
La narrazione è divisa in quattro capitoli, le stagioni dell’anno che corrispondono anche a una funzione specifica del luogo: l’inverno sono gli arrivi, le lunghe code di carte stropicciate, permessi scaduti, frasi balbettate in inglese, spagnolo di amici, parenti, una moglie che aspettano.
Un ragazzo nigeriano viaggia troppo spesso in Italia. Il poliziotto legge i suoi sms, cerca l’umiliazione. Stai violando la mia privacy dice il ragazzo. Decido io, è un controllo di polizia non una condizione normale replica l’agente. Se poi si può credere ai suoi commerci di vestiti usati tra Milano e la Nigeria poco importa, la cosa che conta è cogliere quanto di «rituale» ci sia in quel confronto, quasi un gioco di ruolo divenuto principio di realtà.
Il giovane paraguagio nega anche davanti all’ecografia che svela il suo stomaco pieno di ovuli di cocaina. Poi crolla, dice qualcosa su una tragica storia della madre malata di cancro e del padre disoccupato
La primavera corrisponde alla sicurezza: devono avere paura di voi ripete l’istruttore alle reclute.
L’estate invece è l’attesa, l’autunno le partenze, quel ragazzo africano deve andare via, non può più chiedere diritto di asilo, in Italia glielo hanno rifiutato, non ci sono per lui altre possibilità in Europa, è la legge spiega l’interprete come lui nigeriano.
Povertà, business, ignoranza, furbizia: le mani scavano anche negli animali, pesci o crostacei, i gesti del lavoro sono divenuti un continuo palpare, scrutare, indagare. Come mai vai a Madrid e porti solo pochi vestiti grida l’agente. La donna ride quasi sfrontata alla domanda.
Il Castello, che dopo molti festival e moltissimi premi (tra gli altri HotDoc a Toronto, Torino film festival … ) arriva stasera a Roma (Casa del cinema, ore 21.00 alla presenza degli autori per Doc.it/professional Award) – e sarà a Milano il prossimo 15, ore 18.30, all’interno di un convegno organizzato alla Bocconi (Aula Maggiore, via Sarfatti, 25) – non è solo un bel film ma, soprattutto ci mostra un fare cinema del reale capace di confrontarsi con la propria materia senza retorica né compiacimento. Si parla del nostro tempo, di migranti, di leggi, di rispetto dell’essere umano. Ma anche, appunto, del lavoro, dei gesti di una singolare catena di montaggio che replicano se stessi giorno dopo giorno persino davanti a ciò che potrebbe essere l’imprevisto. Ove tutto è monitorato, osservato, registrato, quasi che non ci sia più posto per l’improvvisazione.
Ci sono nel film alcuni momenti di particolare tensione emozionale e di violenza, e questo proprio perché i soggetti non vengono mai messi in posa, ma vivono nella trasparenza e nella consapevolezza che Parenti e D’Anolfi hanno del proprio sguardo di registi, e di un cinema che non asseconda il bisogno di risposte. Per questo riesce a narrare il mondo.

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