L'impegno, fin da ragazza, per la causa algerina; quell'8 maggio 1945, data d'inizio di tutto; gli anni della clandestinità , quando donne e uomini erano uguali, e poi l'arresto e l'orrore della tortura, da cui già  erano passati il padre, la madre, le sorelle...; la figura luminosa del dottor Richaud. Intervista a Louisette Ighilahriz. ">

VOLEVO SOLO DIRGLI GRAZIE

L’impegno, fin da ragazza, per la causa algerina; quell’8 maggio 1945, data d’inizio di tutto; gli anni della clandestinità , quando donne e uomini erano uguali, e poi l’arresto e l’orrore della tortura, da cui già  erano passati il padre, la madre, le sorelle…; la figura luminosa del dottor Richaud. Intervista a Louisette Ighilahriz.

L’impegno, fin da ragazza, per la causa algerina; quell’8 maggio 1945, data d’inizio di tutto; gli anni della clandestinità , quando donne e uomini erano uguali, e poi l’arresto e l’orrore della tortura, da cui già  erano passati il padre, la madre, le sorelle…; la figura luminosa del dottor Richaud. Intervista a Louisette Ighilahriz.

Louisette Ighilahriz, nata a Oudja in Marocco il 22 agosto 1936, in una famiglia originaria della Cabilia e molto impegnata nella lotta nazionalista algerina, a vent’anni, ancora studentessa, entra a far parte del Fronte di Liberazione Nazionale della Zona autonoma di Algeri, con il nome di “Lila”. Il 28 settembre 1957 a Chébli, nella Wilaya IV, viene catturata in un’imboscata a fianco del suo responsabile di rete, Saïd Bakel, in cui viene gravemente ferita e, in seguito, trasferita nella sede dello Stato Maggiore della Decima Divisione Paracadutisti del Generale Massu a Hydra, dove sarà violentata e torturata. Psicologa di formazione e professione, è stata decorata a più riprese dalle più alte e importanti autorità del suo paese per la sua partecipazione all’indipendenza dell’Algeria. Oggi vive ad Algeri.
Nel 2001, in collaborazione con Anne Nivat, ha pubblicato Torturée par l’Armée française per le edizioni francesi Fayard, un libro-testimonianza che ha riaperto il dibattito sulla tortura durante la Guerra d’Algeria, ripubblicato nel 2006 dalla casa editrice algerina La Casbah con il titolo di Algérienne. Questa intervista è stata realizzata a Torino grazie alla collaborazione di Maria Paola Palladino, autrice della tesi di laurea dal titolo “Louisette Ighilahriz. Memorie e silenzi sulla partecipazione delle donne alla guerra di indipendenza algerina 1954-1962” e presidente dell’Associazione di volontariato italo-algerina Jawhara.

L’impegno politico è qualcosa che ho ereditato dalla mia famiglia: mio nonno già prima del ‘45 si era ritirato nelle montagne e produceva polvere di cannone in vista di una rivoluzione; anche mia madre e mio padre erano impegnati da sempre per la causa algerina. Fin da bambina mi avevano spiegato che l’Algeria era colonizzata e che un giorno avremmo dovuto combattere contro questo regime.
Questa è l’aria che ho respirato. Per me era la normalità: io sapevo da sempre che sarebbe venuto un giorno in cui avremmo dovuto prendere le armi e dire: “Grazie Francia, ma ora torna a casa tua, lasciaci in pace”.
La nostra condizione, d’altra parte, non era tollerabile: noi algerini non eravamo stranieri perché eravamo francesi, e tuttavia sul piano giuridico non avevamo gli stessi diritti dei francesi; non potevamo neanche essere considerati una popolazione colonizzata perché l’Algeria faceva parte dell’impero coloniale. Insomma, non eravamo stranieri, non eravamo francesi, non avevamo uno statuto giuridico. Eravamo delle marionette adatte solo a lavorare, niente di più. Anche nel quotidiano noi “musulmani francesi” eravamo discriminati: chi riusciva ad andare all’università, non poteva poi accedere a tutta una serie di posti: la Marina ci era proibita e così molte altre carriere. L’ascesa sociale dei pochi che andavano avanti con gli studi a un certo punto veniva bloccata. Qualcuno motivava questo atteggiamento spiegando che il nostro cervello non era fatto per lo studio.
Per tutto questo ci siamo ribellati.

Per me la data d’inizio di tutto è l’8 maggio del 1945, è il massacro di Sétif. Durante la guerra gli algerini avevano combattuto a fianco dei francesi per sconfiggere i tedeschi. All’epoca la Francia ci aveva promesso che, se l’avessimo aiutata, avremmo avuto in cambio, come minimo, l’autonomia. Ma così non fu, la promessa non venne mantenuta e l’8 maggio del ‘45, mentre la Francia festeggiava la vittoria, la sua vittoria, la sua liberazione, noi ci trovammo con niente in mano. Di qui le manifestazioni pacifiche di Sétif, Kherrata e Guelma, poi finite in un bagno di sangue. A quel punto ci siamo detti: “Va bene, abbiamo capito”.
Ci abbiamo messo dieci anni, ma il primo novembre del 1954 siamo insorti.
Un’altra cosa da considerare è che sei mesi prima, in Indocina, la Francia era stata sconfitta a Dien Bien Phu. I militari francesi che arrivarono in Algeria erano quindi pieni di astio, e riversarono il loro odio, la loro brutalità, la loro rabbia contro gli algerini. All’origine dell’enormità della violenza contro di noi c’era anche la frustrazione per quella sconfitta, per quell’umiliazione. Dopo aver perso Dien Bien Phu, non avevano la minima intenzione di perdere anche Algeri. Arrivarono in Algeria al grido di “Non ci sarà un secondo Dien Bien Phu”.
Dall’Indocina portarono anche la tortura sistematica e i massacri.

Da ragazza la mia partecipazione alla lotta di liberazione consisteva nel trasportare documenti, medicinali, armi anche; una donna poteva passare, non dico inosservata, ma certo con più facilità di un uomo.
All’inizio la maggior parte degli algerini non credeva nell’indipendenza, ci dicevano: “Siete completamente pazzi, voi volete cacciare la Francia, ma è una follia, i francesi hanno gli aerei, bombardano, e voi volete mettervi sullo stesso piano?! Siete completamente fuori di testa!”.
Insomma per quando la presenza dell’armata francese ci rendesse la vita abbastanza dura, la popolazione ci guardava come se fossimo pazzi. D’altronde in effetti l’impresa era tutt’altro che semplice. Era da centotrent’anni che la Francia ci aveva colonizzato, le radici ormai erano profonde, anche molti di noi le avevano interiorizzate. Tanti algerini lavoravano -e duramente- per i coloni; quella povera gente pensava di dover essere addirittura riconoscente; gli stessi coloni li minacciavano: “Se ce ne andiamo, morirete di fame”.
In questo senso bisognava innanzitutto rendere consapevole la popolazione della propria situazione di sudditanza affinché aderisse alla nostra battaglia. Dovevamo anche coinvolgere gli intellettuali e al contempo affrontare la forza francese. Era un lavoro enorme. Non è stato facile, ma nel giro di un paio d’anni, non tutti, ma la maggioranza era dalla nostra parte.

Il primo novembre, quando scoppiò la rivoluzione, mio padre ci disse: “Oggi finisce l’umiliazione. Sarà molto dura, il cammino è lungo, ci saranno molti ostacoli, arresti, scomparsi, morti e anche torture. Riguardo le torture -aggiunse- bisogna tenere duro, cercate di resistere e di non dare informazioni. Soprattutto non parlate per i primi due giorni, il tempo necessario affinché  i compagni sappiano dell’arresto e possano cambiare luogo”. Eravamo diventati dei veri militanti. Io partecipai allo sciopero del 19 maggio del ‘56, dopodiché rientrai in clandestinità. All’epoca la Francia diceva che coloro che partecipavano alla Resistenza erano degli assassini, dei banditi, dei ladri. Noi, che eravamo solo degli studenti, per protesta facemmo questo sciopero.
Da allora ripresi a fare la staffetta, portando i documenti, le armi, le informazioni, affinché i combattenti non cadessero in qualche trappola. Le informazioni e il cibo erano fondamentali.
Arrivammo così ad agosto. Ormai la tortura era diventata sistematica; in particolare questa prassi era stata legittimata e autorizzata da Marcel Bigeard, Schmitt, Trinquier, e Massu, che avrebbero poi avuto un ruolo di rilievo durante la battaglia di Algeri.
Nessuno all’epoca immaginava che io fossi una militante: recitavo bene; un militante deve soprattutto pensare a salvarsi la pelle.
Quando entrai nella Resistenza, mio padre era già stato arrestato più volte, così mia sorella Malika; in Francia, nella prigione di Fresnes, c’erano i miei due zii e mio fratello, ma io, la mia mamma e le mie altre due sorelle non eravamo state prese. Addirittura quando venne arrestata mia sorella Malika, e fui interrogata, feci finta di arrabbiarmi: “Beh, ha voluto fare la sua vita, io non c’entro niente…”. Ci eravamo accordati così: se qualcuno veniva arrestato bisognava “fare lo gnorri”. Finsi di farle una bella lavata di capo: “Ma come hai potuto fare questo?!”.
Fu in quei giorni che qualcuno mi tradì: “Attenti, attenti a Louisette, ci è dentro fino al collo!”. Comunque, quando vennero ad arrestarmi, mi ero già data alla fuga. La scampai per un pelo. Penso che Schmitt non l’abbia ancora mandata giù.

Così mi diedi alla macchia e mi unii alla Resistenza clandestina. La vita, per noi donne, era quella di tutti i combattenti; era molto dura, ma io ero determinata. Forte della lezione dei miei nonni e dei miei genitori volevo farcela con tutte le forze. Papà mi diceva sempre: “Mi raccomando, non dobbiamo mollare, è la nostra ultima occasione”.
A partire dal 1830, quando era iniziata la colonizzazione, c’erano state tante rivolte, ma ogni volta era finito tutto in un bagno di sangue.
Fui assegnata alla Wilaya IV. Come dicevo, facevo le stesse cose degli uomini, se non di più, pur di non essere considerata una donnicciola.
Nella Resistenza e durante la rivoluzione eravamo sullo stesso piano, uomini e donne eravamo uguali, eravamo tutti carne da macello e poi, quando tutto è finito… ci siamo ritrovate col Codice della Famiglia!

Il 28 settembre, a Chébli, a una quarantina di chilometri da Algeri, ci hanno teso un’imboscata. Abbiamo combattuto fino alla morte, letteralmente: i miei fratelli, i miei compagni sono morti quasi tutti e io sono rimasta ferita. Mi hanno quindi trasportato in ospedale perché avevo delle fratture esposte, e poi allo Stato maggiore della Decima Divisione dei paracadutisti, a Paradou Hydra, un quartiere della capitale. È lì che ho trascorso due mesi e mezzo in cui ho subito l’indicibile.
Provate a immaginare, tutto ottobre, tutto novembre, fino al 15 dicembre, due mesi e mezzo, un’eternità.
Il 15 dicembre, o forse il 16, non ricordo più, è arrivato un militare, ha aperto la mia cella, ha guardato dentro, dopodiché ha sollevato la coperta militare -in tutte quelle settimane ero stata lasciata completamente nuda- e turbato mi ha detto: “Mon petit, ma ti hanno torturato!”. Io ovviamente non mi fidavo. Figuriamoci: un militare che mi chiedeva chi mi aveva torturato. “Non lo so” gli ho risposto. Non gli credevo.
Invece mi ha salvato.
Solo in ospedale ho saputo che si chiamava comandante Richaud. Ma ero disorientata, mi dicevo: non è normale che un militare si comporti così, deve esserci qualcosa dietro. Invece, una volta riportata nella mia cella, è tornato per controllare se mi avevano curata bene e mi ha detto ancora una volta: “Mon petit”. Io non riuscivo a capacitarmi di quello che stava succedendo, in qualche modo era troppo, quel passaggio da una violenza indicibile a un atteggiamento paterno, così, nel giro di qualche ora. Tra l’altro il giorno in cui il dottor Richaud si era rivolto a me nella sala delle torture dicendo: “Piccola mia, adesso ti curiamo” mi era preso il panico. Dovete sapere che nel linguaggio del luogo in cui ci torturavano quando ci dicevano: “Adesso vi curiamo” intendevano: “Ora vi uccidiamo”. Mi sono detta: ecco, è una trappola, ora ricominceranno da capo. Ma proprio mentre pensavo questo si è ripresentato: “Piccola mia, cosa posso fare per te?”. Io ero così terrorizzata che non sapevo cosa dire e gli ho risposto: “La prigione, la prigione e basta, per favore”.
Lui aveva 40-45 anni, era un colonnello, e io ne avevo 20, 21. “È dura per te la Resistenza… sai, assomigli tanto a mia figlia…”, mi ha confessato, e lì ho capito. Dopodiché se n’è andato, e non l’ho mai più rivisto.
L’indomani sono arrivati dei barellieri, mi hanno trasferito in un altro centro, ma non mi hanno più sfiorato. Il giorno dopo ancora, il 20 dicembre, il giudice istruttore mi ha accusato di associazione a delinquere e attività contro l’ordine pubblico; insomma, un sacco di cose, e così sono stata ufficialmente incarcerata nella prigione di Barberousse, la prigione civile della capitale.

A Barberousse c’era la zona femminile, e lì ho ritrovato mia nonna, mia mamma, mia zia… eh sì, tutta la famiglia! Mia sorella Malika era stata trasferita in un’altra prigione. È lì che ho conosciuto la poetessa Anne Porreau, Blanchemoine, Éliette Lou e Jacqueline Guerroudje.
La notte erano le mie compagne che mi scortavano in bagno. Ma la prima sera toccò alla mia mamma. Fu in quell’occasione che scoprì che ero stata torturata. La prese molto male, non me lo disse ma lo capii: avrebbe preferito che mi avessero uccisa. Nella nostra cultura non è concepibile che una donna non sia vergine prima del matrimonio. La mamma era permeata di quella cultura. Il mio babbo, mia sorella, gli zii e le zie, i cugini erano stati tutti in prigione, ma quello che era successo a me era troppo, non poteva accettarlo e non l’ha mai accettato. “Oh, Francia, cos’hai fatto subire ai miei bambini?”, diceva. Presto i francesi si resero conto che violentare le donne poteva diventare un’arma di guerra.

Dalla prigione di Barberousse, venni poi trasferita nella prigione di Maison Carrée, a una quindicina di chilometri da Algeri, e da qui a Les Baumettes a Marsiglia, poi a La Roquette, ad Amiens, alla prigione di Fresnes di Parigi, dopodiché finii giù alla prigione di Tolosa, e a Bordeaux, per poi risalire per un secondo processo a Parigi, e da lì fui deportata in Corsica, dove passai le prigioni di Ajaccio, Corte e Bastia.
A Corte, in Corsica, lavoravo in un ristorante, facevo la donna delle pulizie e in più lavavo i piatti. In teoria mi spettava un compenso, ma non vidi mai nulla. Inoltre dovevo firmare due volte al giorno, alle 10 di mattina e alle 16 del pomeriggio, presso il commissariato. Erano una sorta di arresti domiciliari. Così trascorse tutto il 1961 e l’inizio del 1962, fino a che il 16 febbraio del ‘62 mi dissi: “Sei finita, tanto vale rischiare il tutto per tutto”.
E così ho osato. Ho osato evadere, da sola, con dei complici certo, i miei compagni comunisti, che mi aspettavano fuori e mi hanno tenuta nascosta fino all’indipendenza.

Papà era stato arrestato nel gennaio del ‘57. Non era la prima volta. All’epoca io ero ancora libera e girai tutti i centri di tortura per cercare di scoprire se fosse ancora vivo. Non lo trovai da nessuna parte. Mi restava ormai un solo posto da controllare. Presi il coraggio a quattro mani e con una certa faccia tosta mi presentai: “È il tal comandante che mi manda, mi ha detto che mio padre è qui”. Beh, si dà il caso che papà fosse proprio lì. Mi fecero scendere, era rinchiuso nel seminterrato. Aspettai e dopo un po’ vidi una massa umana avanzare; il militare mi disse: “Ecco, è tuo padre”, “Questo è papà? No, non è papà…”. Fu allora che papà mi chiamò: “Fifì, sono io, papà”. Era irriconoscibile, il corpo tumefatto, il viso completamente sfigurato. E poi, per umiliarlo ulteriormente, siccome aveva sempre portato due grandi baffi, gliene avevano rasato uno, per renderlo ridicolo. Lui però non aveva perso la sua forza d’animo e mi disse: “Beh, mi hanno rasato un baffo, ma non il naso”. Per gli algerini, il naso indica la fierezza, è l’onore della famiglia. Mi disse: “Mi hanno rasato qui, ma non qui”.
Sì, papà è stato duramente torturato, ma anche la mamma, anche Malika, anche mia nonna, non ci sono state eccezioni, ci siamo passati tutti. La tortura era sistematica.
Io poi ero stata violentata in una cella. C’erano donne a cui era andata peggio: violentate in presenza del padre, del fratello, della sorella, o ancora costrette a rapporti incestuosi, e davanti a tutti.
Quando mia madre riuscì a tornare sull’argomento, si limitò a dirmi: “Ascolta, Louisette, di’ che sei stata torturata, ma non dare i dettagli”.
Non ne parlai mai più.

Dopo l’indipendenza? Beh, liberato il paese c’erano tante cose da fare, bisognava risollevare l’economia, c’era una sorta di stato emergenziale in cui l’individuo un po’ spariva. Mi hanno chiesto tante volte se, finita la guerra, mi è stato offerto un qualche sostegno di tipo psicologico, no, non c’era niente.
È stato un brutto colpo. Soprattutto per le donne: avevamo combattuto tutti assieme, uomini e donne, e alla fine eravamo riusciti a liberare il nostro paese, ma a quel punto noi donne sparimmo dalla scena. Sì, ci furono dei riconoscimenti: “Hai partecipato? Congratulazioni, brava, magnifico…”, punto. Qualcuna fu cooptata in qualche posto di potere, qualche vecchietta, le altre trovarono i figli e la cucina ad aspettarle. E poi, nell’84, arrivò il Codice di Famiglia, lo conoscete? È incredibile: a 20 anni ero al fronte, ero maggiorenne; in prigione, dove ho subito l’indicibile e non ho parlato, ero maggiorenne; quando sono evasa da sola, anche allora ero maggiorenne… Oggi ho 74 anni, sono nonna di quattro nipoti, e per il Codice del mio paese sono minorenne!

Amavo e amo la cultura francese, da studentessa ero appassionata di Victor Hugo, in famiglia parliamo molto più francese, ho fatto l’università in francese dopo l’indipendenza.
Noi non eravamo contro la cultura, né contro il popolo francese, eravamo contro i torturatori e contro un governo che aveva deciso che l’Algeria sarebbe stata francese, contro chi parlava di una Francia “da Dunkerque a Tamanrasset”.
Mentre ero in prigione in Francia ho incontrato moltissime ragazze francesi, cattoliche ed ebree, erano state tutte umiliate e torturate come noi; con loro sono nati anche legami molto profondi. Ripeto, non è al popolo francese che abbiamo fatto la guerra, ma al governo e ai dirigenti reazionari.
In questo senso non ho mai sentito contraddittoria la mia passione per la lingua francese.
L’arabizzazione? Ci hanno costretto a studiare una lingua che non era la nostra,  non era il mio arabo, era quello classico e poi io sono amazigh, sono berbera. Comunque l’ho imparato, perché non avevo scelta, ma ancora oggi mi esprimo in francese.
Quell’operazione è stata una catastrofe: oggi i nostri figli non sono né arabizzati, né francesizzati, un disastro! Proprio qualche settimana fa ne parlavo con alcuni studenti: vengono arabizzati fino alla maturità, e poi, una volta che arrivano all’università, è tutto in francese! È una follia: avevamo tante lingue, abbiamo perso tutto. Ecco a che punto siamo.

Gli anni Ottanta? Io li ho vissuti molto male, veramente molto male. Gli islamisti hanno male interpretato il nostro islam, era diventato tutto un divieto: una donna non aveva il diritto di ridere, di sorridere, di alzare la voce; doveva rimanere sottomessa all’uomo. Qualcosa di totalmente inaccettabile per me, per l’educazione che avevo ricevuto: i miei genitori erano molto tolleranti, molto aperti, a quindici anni io guidavo, e il mio papà era il primo a incitarmi a studiare, ad andare bene a scuola. Sottopormi a quelle direttive sarebbe stata un’ingiuria, un insulto ai miei genitori. Sono stati anni bui: quando uscivamo, non sapevamo se saremmo tornati la sera. Mi hanno pure chiesto di portare il velo. A me! I miei nonni non l’hanno mai portato, né i miei genitori, non mi si poteva chiedere di portarlo. Per me non era qualcosa su cui si poteva negoziare, sono testarda, ho tenuto la mia linea di condotta.
Se ho avuto dei problemi? Certo che ne ho avuti, a partire da mio figlio, che era diventato un barbuto.

La Primavera araba? Non posso negare di essere preoccupata. C’è molto di buono in questo rivolgimento, ma il rischio che ora prevalgano gli islamisti è grosso. Buona parte delle manifestazioni io le condivido pienamente, e però, ripeto, ho molta paura di un’ascesa dell’islamismo. Fin dall’inizio molti di loro si sono introdotti nelle manifestazioni e adesso le loro vere mire stanno venendo allo scoperto. In qualche modo noi democratici ci troviamo fra due fuochi. Il pericolo è che approfittino delle nostre battaglie per prendere il potere e poi fare invece marcia indietro. Già adesso in Egitto, in Tunisia e in Siria, la posta in gioco sta diventando evidente. Spero che a questa primavera non segua un freddo inverno per il mondo arabo. Bisogna fare molta attenzione. Rimanere vigili.
La soluzione prefigurata da Camus? Io amo molto i suoi scritti, sono magnifici, ma lui non è mai stato per l’indipendenza. Quella frase, “je préfère ma mère que…”, per me resta straordinaria, ma, ripeto, per me non avrebbe mai potuto funzionare qualcosa di diverso dall’indipendenza. Ci abbiamo provato tante volte. Nessuna autonomia sarebbe stata proponibile, anche perché sapevamo come l’avrebbero messa in atto… Noi avevamo le idee chiare su ciò che volevamo… Non eravamo così masochisti da perdere un milione e mezzo di algerini, da farci imprigionare, torturare, uccidere, se avessimo ritenuto possibile un’altra strada. Ma non c’era un’altra via.
D’altronde ancora oggi, che l’indipendenza l’abbiamo da tempo, di fatto non siamo veramente autonomi. Sì, abbiamo i confini, la bandiera, ma per tante cose…
Ma non dobbiamo esagerare a lamentarci. Sono state fatte tante cose buone. Prima avevamo una sola università, adesso ce ne sono in ogni wilaya, e poi ogni comune ha le sue scuole superiori…
Tra qualche mese festeggeremo i nostri 50 anni. Certo, ci sarebbe piaciuto fare di più. Qui è anche colpa nostra. Durante la Resistenza mai avremmo pensato che l’Algeria sarebbe diventata così. C’è troppa corruzione nel nostro paese, troppi ladri, troppi furbi, hanno superato ogni limite, e per questo siamo molto arrabbiati. Sognavamo un paese più equo, con meno differenze tra ricchi e poveri, in cui la ricchezza fosse meglio distribuita; ma soprattutto avevamo lottato per un paese libero e democratico, e non lo siamo.

Dopo la guerra, noi ragazzi abbiamo tutti ripreso gli studi, una è diventata professoressa d’inglese, un’altra di diritto, l’altro è professore d’ingegneria nucleare, un altro ancora è medico. Papà e mamma hanno continuato a lavorare nel loro panificio, l’hanno rimesso in sesto, rinnovato, perché era stato bombardato, poi sono morti, ecco tutto.
Nessuno ci ha regalato niente, non abbiamo avuto alcun “bonus”. Certo, ho la mia piccola pensione di mujahida, di combattente, questo sì. Ma niente di più. Insomma, posso guardare tutti a testa alta, perché davvero non ho avuto sconti, non ho avuto niente, ho ottenuto tutto coi miei diplomi, col mio sudore, col mio lavoro.
Ovviamente in famiglia non abbiamo dimenticato, ma nessuno di noi ha mai parlato di tortura, è rimasto un argomento tabù… fino al 2000.
Devi sapere che all’epoca mio padre era morto, mia madre era stata colpita dall’Alzheimer, non era più lucida, io poi avevo avuto gravi problemi cardiaci. A quel punto mi sono detta: ora o mai più. Era arrivato il momento di parlare di quello che mi era successo. Mio marito sapeva, ma i miei figli no, lo seppero come tutti gli altri. Come la presero? Male, molto male, mia figlia ebbe un crollo nervoso, mio figlio tagliò corto, fu quasi violento.
Tutta questa storia, poi, in realtà non è nata perché volevo denunciare le torture dei francesi, ma perché volevo ringraziare il comandante Richaud. Ho ricevuto un’educazione molto rigorosa, all’insegna del rispetto di tutta una serie di valori. Mio padre ci diceva sempre che dovevamo essere grati a chi faceva qualcosa per noi. Pertanto il fatto di non aver mai detto grazie al dottor Richaud mi ha tormentato enormemente.
Così, a un certo punto, ho cominciato a cercarlo per tutta la Francia: ho fatto delle indagini, ho scritto ai giornalisti, sono andata anche all’Ambasciata di Francia a Algeri, dove peraltro mi hanno ricevuto in malo modo.
Comunque ogni qualvolta un conoscente andava in Francia la mia richiesta era sempre quella: “Trovatemi il comandante Richaud, per favore, devo solo dirgli grazie, tutto qui”. Ma non c’era verso. Anche i miei familiari si erano mobilitati. Mia sorella Mina conosceva il padre del marito di Florence Beaugé, la corrispondente di Le Monde ad Algeri e si mise in contatto con lui, che si rese disponibile. Non ci potevo credere, dissi subito: “Mina, se potessi dirgli di cercarmi il comandante Richaud tramite la nuora, vorrei soltanto dirgli grazie…”. E così anche loro si misero tutti a cercare il comandante Richaud.
Nell’estate del 2000 Florence Beaugé, incuriosita, venne da me e mi chiese: “Ma perché cerchi il dottor Richaud?”. E così le raccontai la mia storia: della tortura, del medico misterioso che mi aveva salvato e del fatto che non l’avevo mai più visto. Uscì un articolo su Le Monde, in prima pagina, che fece molto scalpore. E poi uscì anche il libro. È così che è cominciato tutto.
No, dopo la mia testimonianza, non c’è stata in Francia alcuna forma di riconoscimento, autocritica o riparazione, non dalle autorità ufficiali almeno, perché la gente invece è stata straordinaria. Ogni volta che mi riconoscevano venivano ad abbracciarmi, a dirmi grazie. Da questo punto di vista, qualcosa è successo: i torturatori, non tutti, hanno parlato.
Vidal-Naquet, prima di morire ha assistito al mio processo contro il generale Paul Aussaresses. Quando ci siamo incontrati, mi ha ringraziato: “Louisette, non puoi immaginare quanto ci stai aiutando. Tutte le persone che avevano scritto contro la tortura durante e dopo la guerra e che erano state mandate alla gogna, ora sono come risorte. Alcune si sono rimesse a scrivere…”.
I socialisti avevano fatto una promessa: “Se saliamo al potere, porgeremo le nostre scuse all’Algeria”. Ora sono la maggioranza al Senato. Vediamo.

Purtroppo non sono riuscita a ringraziare il dottor Richaud. Scoprimmo infine che era morto nel 1997. Non sai quanto ho rimpianto il fatto di non averlo potuto incontrare quand’era vivo, l’avrei baciato e abbracciato. Ora riposa nel piccolo cimitero di Cassis, in Provenza. Ogni volta che mi reco in Francia, vado a trovarlo e a portargli un fiore, è il mio personale pellegrinaggio.

(traduzione di Anthinea Gualtieri)

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password