ILLUSIONI PERDUTE Un dialogo con Evgeny Morozov, il cui saggio «L’ingenuità della Rete», da poco uscito per Codice, ha suscitato polemiche negli Stati Uniti per la sua analisi ironica e incalzante dei lati oscuri del web
ILLUSIONI PERDUTE Un dialogo con Evgeny Morozov, il cui saggio «L’ingenuità della Rete», da poco uscito per Codice, ha suscitato polemiche negli Stati Uniti per la sua analisi ironica e incalzante dei lati oscuri del web
Sgrana gli occhi ogni volta che sente parlare di una separazione tra ciò che accade dentro lo schermo e una realtà che con Internet non ha nulla a che fare. Evgeny Morozov è cresciuto con la Rete – ha ventisei anni – e non riesce proprio a pensare il mondo senza il web. Non ama però il messianesimo di molti studiosi e analisti quando parlano o scrivono del Word Wide Web come un regno della libertà; oppure quando invocano la quarta e finale ondata di democratizzazione che travolgerà stati autoritari come l’Iran, la Bielorussia (dove è nato e vissuto prima di trasferirsi negli Stati Uniti) e la Cina grazie ai «mi piace» cliccati su un social network.
Nel suo saggio da poco arrivato in libreria – L’ingenuità della Rete, Codice edizioni – usa sapientemente un’ironia corrosiva per demolire le tesi di molti think thank statunitensi, che per anni hanno sostenuto che la libera circolazione dell’informazione consentita dal web avrebbe determinato rivoluzioni democratiche in quei paesi. Morozov nutre molti dubbi sul fatto che il Muro di Berlino sia crollato solo perché gli abitanti della Rdt vedevano le televisioni della Germania federale. E ricorda come i dirigenti della Sed e i cupi agenti della Stasi sostenevano che la disponibilità a scendere in strada per protestare era inversamente proporzionale alla possibilità di vedere Dallas o altre sit-com trasmesse dalle televisioni occidentali. Dallas serviva al potere «socialista» perché depoliticizzava i tedeschi orientali. Lo stesso vale oggi per la Cina o la Bielorussia, paesi dove Internet è molto usata, ma dove il regime politico non cambierà certo perché la popolazione è connessa al web. Anche qui l’ironia di Morozov la fa da padrona, quando illustra i dati sui siti più visitati: sono quelli x-rated, ampiamente tollerati dai due governi.
Il libro di Morozov ha suscitato un vespaio negli Stati Uniti ed è stato subito considerato un pamphlet contro la Rete e il suo potere manipolatorio. Lo studioso e blogger ancora non riesce a darsi una spiegazione sul perché le sue tesi abbiano provocato tanto clamore. «In fondo – afferma – volevo solo segnalare che nella Rete c’è un lato oscuro che andava portato alla luce. E cioè che il web è usato dagli stati totalitari per fare propaganda e per esercitare un controllo capillare sulla popolazione». Ospite del Festival della scienza in corso a Genova (terrà oggi alle 18 a Palazzo Ducale una conferenza su «Perché Twitter non può scatenare una rivoluzione»), Morozov apre con questa affermazione l’intervista e non nasconde poi la sua diffidenza verso le great questions che vengono poste sulla Rete. Così come è scettico sulle risposte «universali» che, teorici radicali o conservatori, forniscono sul presente e il futuro del web.
Nel suo libro, lei descrive due apriori che riguardano la Rete: il mondo sarà cambiato a colpi di click del mouse; oppure internet come luogo dominanto da manipolatori. Due modi di vedere la Rete che non prevedono terze vie. È proprio così?
Non sono certo io a negare gli aspetti positivi della Rete. Sono cresciuto con il web e sono consapevole che è diventato una componente fondamentale della vita sociale. E fondamentale è il suo uso da parte di chi vuole impegnarsi politicamente per cambiare la società. Ma a non avermi mai convinto è la tesi secondo la quale tutto ciò che accade nella Rete è positivo. Ho studiato, ad esempio, come alcuni governi la usano come mezzo di propaganda; ho poi registrato le dichiarazioni di esperti democratici sulle potenzialità democratiche della Rete, che mal si accordavano con quanto facevano il governo di Pechino o di Tehran quando sguinzagliavano nel web cittadini zelanti per cercare prese di posizioni a loro ostili. Volevo dunque invitare a guardare alla Rete senza farne un’apologia che bandisca ogni dubbio o attitudine critica sulle sue – supposte – potenzialità liberatrici. Ero e sono interessato a comprendere il contesto in cui la Rete è sì parte fondamentale, ma non unica. Il mondo si può trasformare grazie alla Rete, ma se continenti come l’America Latina hanno conosciuto grandi trasformazioni non è stato solo perché c’era Internet. Vanno considerate altre variabili – la storia locale, le condizioni sociali, la situazione economica – se si vuole davvero comprendere il perché alcuni paesi, come la Tunisia o l’Egitto, hanno conosciuto rivoluzioni, rivolte, cambi di regime.
Lei descrive con cura il modo in cui i governi di paesi come Cina, Russia, Iran usano la Rete per mantenere lo status quo. Ne emerge che in questi paesi è in atto un diffuso crowdsourcing per esercitare un capillare controllo sociale. Allo stesso tempo, ci sono gruppi che utilizzano le stesse tecniche degli hacker a favore dei potere costituito. Dunque la Rete è solo una sofisticata tecnologia di controllo sociale…
Lei parla di crowdsourcing (cioè di quel coinvolgimento diretto della «folla» nel migliorare i prodotti delle imprese) a proposito del modo in cui alcuni governi usano la Rete. È un parallelo interessante, ma si tratta di un fenomeno antico, tanto quanto gli stati nazionali. Un governo, tanto più se è autoritario, deve mobilitare una parte della popolazione contro i nemici interni. Ma per fare questo non c’è bisogno del web: in fondo lo stalinismo faceva crowdsourcing ben prima che fosse costruito il personal computer, il che dimostra tra l’altro che le categorie usate per analizzare il funzionamento della rete sono deboli, inefficaci, inadatte. Per questo penso che occorre elaborare punti di vista più adeguati a quanto accade nella società. Prendiamo Google. Da sempre si presenta come una società diversa dalle altre. Usa software aperto, ha un regime tollerante verso i suoi dipendenti, si batte per la difesa dei diritti umani. Insomma, si presenta come una impresa illuminata. Ma se qualcuno chiede di regolamentare l’uso dei dati personali di chi naviga con il suo motore di ricerca, sostiene che non servono le regole e che lo status quo, che consente a Google di fare molti profitti, va mantenuto. Ecco, penso che il punto sta qui: il modo di rappresentare la Rete attinge al vocabolario del potere, ed è giunto il tempo per affiancare a questo un vocabolario critico.
Finora abbiamo parlato dei governi e poco delle imprese, che non sono certo inferiori a nessuno nell’usare la Rete come strumento di propaganda. Perché, nel suo libro, dedica così poco spazio a questo tema?
Se guardiamo alla storia del web, vediamo che fino a metà degli anni Novanta l’etica dominante non contemplava che la Rete potesse servire per fare affari. Poi non è stato più cosi. Sono d’accordo con lei quando sottolinea il fatto che le imprese usano il web per fare propaganda quando cercano di valorizzare il proprio brand.
Lei ha scritto con un certo sarcasmo che Wikileaks è un intermediario tra i dati e l’opinione pubblica. Eppure si batte contro il segreto di stato per la libertà di espressione. Lei non è d’accordo?
Non sono stato per niente sarcastico, solo un po’ ironico. Ho descritto quello che ha fatto Wikileaks è entrata in possesso di una mole enorme di informazioni e ha fatto intermediazione con alcuni media per diffonderla. Adesso Wikileaks ha deciso di interrompere la sua attività. Non credo che però il blocco delle donazioni, e la conseguente difficoltà economica, sia l’unico motivo per la sospensione della sua azione. Mi sembra che Wikileaks attraversi una crisi rispetto al suo ruolo e che non abbia, finora, saputo elaborare un altro modo di fare informazione libera. In altri termini, ha fatto intermediazione, ma questo non garantiva più che i loro obiettivi venissero raggiunti.
I social netwok e la cloud computing sono le nuove frontiere della Rete. Cosa pensa della loro presa sulle persone? Non crede che un vocabolario critico sul Web debba affrontare il loro potere sulla vita individuale e collettiva?
In questo momento sono interessato a studiare Facebook come un’impresa ideologica. Mark Zuckerberg, il suo fondatore, ha fatto dichiarazioni sulla necessità di costruire una società fondata su una radicale trasparenza. Tutto deve essere reso pubblico, non ci devono essere grandi segreti, le preferenze, i gusti devono essere socializzati sul proprio profilo. Grazie a questa trasparenza radicale, Facebook fa affari d’oro. È dunque una impresa ideologica. E dico di più. Tra Wikileaks e Facebook non ci sono molte differenze. Entrambi sono contro i segreti, entrambi sono per la trasparenza. L’unica differenza sono nei profitti che la trasparenza radicale fa fare a entrambi.
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