Un fronte comune, insieme ai Pigs

L’ITALIA E L’UE. Prima ancora di esserne la causa – e in gran parte, ovviamente, lo è – Berlusconi è il prodotto del berlusconismo: una tabe che affligge non solo il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga parte dell’establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio). 

L’ITALIA E L’UE. Prima ancora di esserne la causa – e in gran parte, ovviamente, lo è – Berlusconi è il prodotto del berlusconismo: una tabe che affligge non solo il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga parte dell’establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio).  E Confindustria che lo ha sostenuto fino all’altro ieri anche; e allora, di che si lamenta?). Ma gli uomini e le donne al governo dell’Europa sono anch’essi promotori e prodotto (sono prigionieri del loro elettorato; che è però quello che hanno costruito e vellicato) di un virus altrettanto grave, di cui Berlusconi non è che la manifestazione più grottesca, infame e repellente. Quel virus è il pensiero unico: la convinzione, contro ogni evidenza, che il mercato, e solo il mercato, può tirarci fuori dai guai in cui ci ha cacciati. E che per tirarci fuori dai guai, per uscire dalla crisi, occorre rilanciare la crescita: cioè sperare – e che altro, se no? – in un aumento del Pil tale da generare entrate fiscali sufficienti a pagare gli interessi e a rimborsare, un po’ per volta, una parte consistente del debito pubblico. Per loro l’economia è come un’auto a cui si è imballato il motore. Basta dargli una spinta e tornerà a correre – cioè a crescere – di nuovo. Ma le cose non sono così facili; e non lo saranno mai più. E intanto, in attesa di questo miracolo, la soluzione vincente è il taglio della spesa pubblica: pensioni, sanità, scuola, trasporto pubblico, welfare municipale, pubblico impiego, salari e stipendi. E privatizzazione di tutto, contando di ricavarne le risorse necessarie a tacitare gli appetiti dei mercati, cioè di tutti coloro impegnati a produrre denaro per mezzo di denaro: banche, assicurazioni, fondi di investimento, speculatori, mafie (queste, sì, con la liquidità necessaria a fare piazza pulita di tutto quel che è in svendita: a partire dai servizi pubblici locali). Di tagliare per altre vie le unghie alla speculazione non si parla; perché quello che chiamano mercato è speculazione: senza l’una non c’è l’altro, e viceversa; simul stabunt, simul cadent. Così, invece di crescere l’economia si avvita su se stessa in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo delle finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del sistema produttivo, della convivenza civile, dell’ambiente.
La parabola della Grecia ne è un esempio: tutti sanno – ma pochi lo dicono – che non si riprenderà più per decenni. Ma altri paesi, Italia in testa, sono già sullo stesso cammino e nessun paese dell’eurozona è più al sicuro. Per statuto la Banca centrale europea (Bce) non può fornire liquidità alle banche messe in crisi dai debiti sovrani (cioè degli Stati) che detengono: ufficialmente per non generare inflazione; in realtà per perpetuare quel blocco dei salari da cui ha avuto origine la cavalcata dei profitti degli ultimi decenni. Così, per garantire quei debiti si ricorre alla creazione di nuovi debiti in una catena senza fine (andando a chiedere l’elemosina persino in Cina) e l’Europa consegna alla finanza internazionale e alla speculazione le chiavi dell’economia: la creazione di liquidità, cioè la moneta.
Siamo alla vigilia della Cop 17, il vertice dell’Onu che a Durban (Sudafrica) dovrebbe rinnovare, estendere e approfondire gli accordi di Kyoto per ridurre in modo drastico le emissioni di gas di serra, causa dell’imminente catastrofe climatica. Scienziati di tutto il mondo ribadiscono l’urgenza di un cambio di rotta, pena la sopravvivenza stessa dell’umanità. Ma nessuno si occupa più della questione e niente evidenzia meglio l’inconsistenza e vacuità della governance europea (e di quelle del resto del mondo: tutte fautrici e insieme prigioniere del pensiero unico). Già si sa che a Durban non si concluderà niente, come niente si è concluso a Copenhagen (Cop 15) e a Cancùn (Cop 16). Se tre anni fa erano Berlusconi e la pseudo-ministra Prestigiacomo a girare l’Europa per spiegare agli altri capi di governo che certi impegni erano irrealizzabili e dannosi per l’economia, ora il loro obiettivo è raggiunto: anche se in alcuni paesi qualche passo in avanti, comunque insufficiente, è stato fatto, su questo punto, in nome della crescita, l’allineamento dell’Europa al berlusconismo è ormai completo.
C’è un’alternativa a questa spirale? Certo che c’è. E’ la conversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi: la promozione di una democrazia economica fondata sull’autogoverno e un sistema produttivo decentrato, diffuso, diversificato, esperto, riterritorializzato (a chilometri zero, ovviamente dove è possibile), replicabile in tutto il mondo: tanto nei paesi di consolidata industrializzazione che in quelli emergenti e in quelli devastati da sfruttamento e globalizzazione. Una conversione che coinvolga i settori portanti della generazione e dell’efficienza energetica, dell’agricoltura e dell’alimentazione, dell’edilizia e della cura del territorio, della mobilità e della sanità; e promuova l’autogoverno dei saperi, dei servizi pubblici e dei territori, restituiti alla loro vocazione di beni comuni; e adotti consumi più sobri e meno aggressivi verso l’ambiente: non la rinuncia ascetica né la miseria a cui la finanza sta condannando il 99% della popolazione mondiale; bensì un graduale passaggio dai consumi individuali, in cui le scelte sono imposte dalla moda, dalla pubblicità, dal marketing, dagli sprechi, a un consumo condiviso, in cui gli acquisti vengono effettuati, nel rispetto degli orientamenti di ciascuno, attraverso processi partecipati come quelli dei gruppi di acquisto solidale (Gas). E con dei veri tagli alle spese viziose: che non sono la pensione dopo quarant’anni di lavoro in fonderia, e nemmeno il prepensionamento di uomini e donne nel pieno del loro vigore cacciati dalle aziende e senza alternative; ma le spese militari, l’evasione fiscale, le grandi opere inutili e dannose, la corruzione, i costi dei politici (dei politici, non della politica: quella vera non costa quasi niente). Solo nella prospettiva di una conversione ecologica le risorse che si ricavano da tagli del genere non verranno sprecate; evitando soprattutto di pagare un servizio del debito (in Italia oltre 100 miliardi di euro all’anno) che non può che affondare il paese. Non è il vagheggiamento di una società ideale, ma un programma che risponde a un elementare senso di giustizia in un processo fatto di conflitti, di partecipazione e di organizzazione delle forze necessarie per imporre soluzioni innovative e condivise: a partire dalle situazioni di crisi occupazionale che non hanno prospettive se non nella riconversione produttiva; e dal condizionamento dei governi locali, per risalire di lì ai governi nazionali e alle governance europee e mondiali.
Ma dove sono mai le forze per imboccare una strada del genere? Quelle forze hanno fatto una comparsa a livello globale nella giornata del 15 ottobre, trascinate dall’indignazione nei confronti del modo in cui vengono governate, dalla volontà di valorizzare l’energia e l’intelligenza di una generazione messa ai margini dai poteri della finanza, dalla determinazione a non pagare i costi della crisi e i debiti contratti dagli establishment politici e finanziari al potere. Il segnale è partito dalla Spagna e le parole più chiare sono state dette a New York; ma la manifestazione più numerosa e dalla composizione più variegata di questo movimento in marcia è stata quella di Roma, dove si sono ritrovati, per la prima volta insieme, associazioni, movimenti, comitati, sindacati e persone (dai No Tav agli occupanti del Teatro Valle, dalla Fiom ai Cobas, dal Forum per l’acqua al movimento degli studenti) che da anni lavorano con tenacia a promuovere progetti e rivendicazioni tra loro diversi ma convergenti; e non è valsa a offuscarne il significato la messa in scena di una aggressività vacua e violenta.
Una cosa emerge ormai con chiarezza: entro i vincoli di bilancio imposti dalla Bce a Grecia, Italia (quelli esplicitati dalla lettera con cui Draghi e Trichet hanno definito il programma di questo come di ogni prossimo governo) e in tutta l’Europa non c’è posto né per la politica, né per la proposta, né per l’alternativa. C’è posto solo per l’obbedienza, la rinuncia, il servilismo mascherato da buon senso di tanti columnist, e una spirale che porta direttamente al default; dopo aver però devastato occupazione, redditi, convivenza civile, tessuto produttivo e ambiente. La strada stretta della conversione ecologica passa allora attraverso lo scardinamento di questo diktat ed è a senso unico. La crisi in corso, con il salvataggio delle banche too big to fail (troppo grandi per fallire) ci fa capire quanta forza hanno in realtà i debitori. E’ la condizione in cui si trova oggi il nostro paese: la sua insolvenza trascinerebbe nello stesso gorgo, insieme all’euro, tutta la costruzione dell’Unione europea e le economie sia deboli che “forti” di tutti gli altri paesi. Ci sono dunque le condizioni per imporre una ristrutturazione radicale e selettiva del debito pubblico italiano attraverso un negoziato condotto insieme ai paesi cosiddetti Pigs, tutti esposti alla stessa deriva. Cominciando così a sgonfiare la bolla del debito che dai mutui subprime alle banche e agli hedge fund, e da quelle agli Stati che le hanno salvate, e dagli Stati di nuovo alle banche e poi di nuovo agli Stati, continua e continuerà ad aleggiare sul continente, sconvolgendone tutto il sistema produttivo; e buttando a terra uno a uno come tanti birilli tutti gli Stati dell’Unione. Non sarà l’attuale governo – né il prossimo – ad avviare un negoziato del genere; ma questo è il discrimine intorno a cui raccogliere e ricostruire un’autentica forza di opposizione. Anche per salvare l’euro; e l’Europa che vogliamo.
Riconversione ecologica della produzione e dei consumi, democrazia economica fondata sull’autogoverno. La possibilità c’è, a patto di scardinare i diktat dei vincoli di bilancio

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