Tre amici e la paura di un golpe Gli anni 70 come una commedia

Si può scherzare sulla contestazione, il cinema sfida un tabù I l Sessantotto (con tutte le mitologie che si porta dietro) non è un tema molto frequentato dal cinema italiano. Men che meno sotto forma di commedia, quasi che di quel periodo fosse proibito ridere e scherzare.

Si può scherzare sulla contestazione, il cinema sfida un tabù I l Sessantotto (con tutte le mitologie che si porta dietro) non è un tema molto frequentato dal cinema italiano. Men che meno sotto forma di commedia, quasi che di quel periodo fosse proibito ridere e scherzare. Si è dovuto aspettare Mio fratello è figlio unico — che pure quegli anni racconta in modo tangenziale — per tentare un primo approccio. Forse coinvolge ancora troppo. Forse — o soprattutto — ci voleva un regista «straniero» per sfatare quel tabù. Oltre che sufficientemente giovane da non aver timori reverenziali. Come Roan Johnson, nato a Londra nel 1974 da madre materana e padre londinese, ma italiano d’adozione visto che ha studiato cinema prima a Pisa e poi al Centro sperimentale. E proprio a Pisa Johnson viene a conoscenza di una specie di leggenda metropolitana che leggenda non è, ma fatto vero e documentato: la «fuga verso la libertà» di tre giovani pisani decisi a rifugiarsi all’estero pur di non cadere sotto la repressione dell’imminente colpo di stato…
Siamo — meglio: erano — al primo di giugno del 1970. Due liceali amanti della musica quanto delle idee di sinistra, Renzo Lulli e Fabio Gismondi, hanno appuntamento con Pino Masi (l’anima del Canzoniere Pisano, l’autore della Ballata del Pinelli e dell’inno di Lotta Continua) per una specie di audizione. Loro sperano di poter suonare con Masi di fronte ai loro amici, ma una telefonata interrompe la prova: meglio dormire fuori casa per tre o quattro notti, c’è il rischio di un colpo di stato. I loro nomi possono addirittura essere «i primi della lista»…
In quegli anni avvertimenti di quel tipo venivano presi maledettamente sul serio. Il 12 dicembre del 1969 la strage di piazza Fontana, a Milano, aveva inaugurato la «strategia della tensione», una lettura dei fatti smentita dalle voci ufficiali dello Stato ma presa molto sul serio (e a ragione) dai militanti della sinistra. Soprattutto da quella extraparlamentare. E così, per non rischiare, i tre salgono sull’A 112 di Lulli e si dirigono fuori città: le notizie sono frammentarie, la paura aumenta e l’autorevolezza di Pino Masi, mista a una certa tendenza al complottismo, spinge i tre amici a cercare la strada della più vicina frontiera. Senza contare che, alla prima sosta a un autogrill, incontrano una colonna di militari diretti a Roma: li aspetta la parata del 2 giugno, ma i tre amici non ci pensano e vedono solo dei militari pronti a occupare ministeri, punti nevralgici, parlamento e senato.
La fuga continua con più convinzione. Scartata la Jugoslavia, i tre arrivano al confine austriaco. Che attraversano senza preoccuparsi dei controlli, innescando più di una complicazione diplomatica: per la loro «richiesta d’asilo politico» ma anche per i militari italiani che, spinti da troppo zelo, sono sconfinati in Austria armi in pugno per cercare di catturare i tre «pericolosi delinquenti» fuggiti tra i boschi.
Una tragedia? Una farsa? Una denuncia politica? Ripercorrendo con simpatia e partecipazione emotiva quei fatti (che non si fermano certo alla frontiera…) Roan Johnson riesce dove in molti non avevano nemmeno provato: cercare di sorridere di un periodo dove ironia e allegria erano risolutamente fuori legge. Ma senza buttar tutto in farsa, piuttosto cercando di far capire — almeno per empatia generazionale — la complicazione mentale, se non proprio la confusione, in cui si trovavano molti giovani. La Storia si rivelò essere dalla loro parte (sei mesi dopo i fatti raccontati, un golpe vero fu realmente tentato – da Junio Valerio Borghese — e fortunatamente sventato), anche se a volte si finiva per leggerla e interpretarla con più di un eccesso.
Il film non cade in questo errore. Forse la scelta di aderire sempre alla «lettura della realtà» dei tre amici finisce per essere un po’ riduttiva e blandamente ideologica, soprattutto nel raccontare quello strano intreccio di paure e ideali, «fantasmi» e «intuizioni». Ma la sceneggiatura del regista e di Davide Lantieri e soprattutto un cast molto indovinato (accanto all’esperto Claudio Santamaria ci sono due esordienti: Francesco Turbanti e Paolo Cioni) sanno evitare ogni sottolineatura eccessiva, capaci di far emergere l’«assurdità» di quella fuga ma insieme di restituire il coinvolgimento emotivo dell’impegno e dell’età. E la sorpresa delle ultimissime scene (che non vogliamo svelare) è la dimostrazione migliore dell’onestà e della sincerità con cui regista e attori hanno raccontato quei giorni. Talmente veri da sembrare mitici.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password