Pratiche del tempo libero nel segno della sovversione

MOSTRE Un progetto allestito fino al 13 novembre alla Galleria Nazionale di Praga
Per quanto diverse tra loro, queste «quotidiane utopie» hanno in comune l’irriducibilità  ai meccanismi dell’industria culturale

MOSTRE Un progetto allestito fino al 13 novembre alla Galleria Nazionale di Praga
Per quanto diverse tra loro, queste «quotidiane utopie» hanno in comune l’irriducibilità  ai meccanismi dell’industria culturale

 Nel saggio L’utopia del tempo libero Daniel Mothé, sociologo e, ancor prima, sindacalista alla Renault, rilevava la tendenza del tempo non lavorativo a degradarsi in tempo votato al consumo, trasformandosi in fattore ulteriore di ineguaglianza e alienazione. Nella sua critica Mothé riprendeva il concetto adorniano di amusement come prolungamento del lavoro nell’epoca del tardo capitalismo, vacuum illusorio offerto a chi deve sottrarsi saltuariamente alla catena di montaggio per poi essere di nuovo in grado di affrontarla, spazio ingannevolmente sgombro in cui si consumano i prodotti standardizzati del processo lavorativo stesso.

Ma quali connotazioni assume la categoria del tempo libero in società come quelle dell’Europa centro-orientale, estranee (almeno fino a poco tempo fa) all’«indiscutibilità» pratica e teorica del modello capitalista? Davvero l’esercizio del tempo libero si risolve di necessità in una «prova di coerenza» nei confronti delle norme sociali anche in situazioni estreme, quali la detenzione in un campo di lavoro sovietico, oppure in periodi ibridi di transizione come gli anni Trenta per la Cecoslovacchia o gli anni Novanta per la Russia postsovietica? E, ancora: quali sono gli spazi a nostra disposizione per elaborare pratiche sovversive che trascendano quell’insulso “svago moderno” che Edgar Morin ha definito come loisir?
Con questi interrogativi si è confrontata la mostra Tempo libero. Utopie ai margini della quotidianità, visibile alla Galleria Nazionale di Praga fino al 13 novembre. Un progetto che, ancor più che polifonico, verrebbe da definire «dissonante», tale è la eterogeneità dei manufatti esposti e delle tendenze rappresentate nelle sei sezioni, affidate ad altrettanti curatori.
Diversissimi per contesto geopolitico, statuto ontologico e finalità pragmatiche, gli esempi prescelti sono accomunati dall’irriducibilità ai meccanismi dell’industria culturale, ovvero si situano in una dimensione scientemente (o fatalmente) lontana da quella dei «bisogni uguali, soddisfatti da oggetti prodotti in serie» a suo tempo teorizzata da Adorno e Horkheimer. Questo è infatti l’unico filo rosso che sembra unire fenomeni così lontani come l’hobby della tassidermia «estrema» (ossia la creazione di animali imbalsamati più o meno mostruosi che non hanno un equivalente in natura) qui documentata da Lumir Hladik e la produzione domestica di utensili di uso quotidiano ottenuti dall’assemblaggio di oggetti preesistenti, la cui funzione originaria viene stravolta in modo quasi surreale.
Una pratica quest’ultima comune a tutte le epoche e le culture, ma che nella Russia (post) sovietica ha raggiunto gradi inconsueti di raffinatezza, stante la esigenza di ovviare alla mancanza cronica di strumenti.
A testimoniare l’originalità di questi ibridi concepiti all’intersezione tra necessità e inventiva è la collezione dell’artista Vladimir Arkhipov, approdata in Italia nel 2008 in occasione di una serie di mostre (alla galleria Nina Lumer di Milano e al Museo Pecci di Prato, nell’ambito della collettiva Progressive Nostalgia curata da Viktor Misiano) e documentata anche dal volume Design del popolo, edito da Isbn.
Objets trouvés nel senso letterale della parola, tali manufatti, svincolati sia dalla riproducibilità in serie sia dalle logiche del mercato, appaiono intimamente legati alla vita privata del loro creatore; non a caso, lo stesso «collezionista» li considera inscindibili da una breve narrazione che ne ricostruisce, spesso in uno stile colorito o ingenuo, origine, uso e destino.
Al concetto di «arte forzata» – vynudennoe iskusstvo – coniato da Arkhipov per definire questa produzione materiale ispirata da deficit esistenziali spesso tragici, si riallaccia anche un’altra tipologia di oggetti voluti da Tomás Glanc nella sezione Roulette russa da lui curata. Si tratta di una serie di manufatti realizzati da detenuti di campi di prigionia sovietici, compresi nel Museo virtuale del Gulag ideato dall’Associazione Memorial (www.gulagmuseum.org/start.do) e per la prima volta esposti al di fuori dei confini russi.
Implicita conferma all’osservazione dell’ex forzato Fedor Dostoevskij che già in Memorie da una casa morta aveva rilevato come i condannati delle colonie penali sarebbero impazziti se non fosse stato concesso loro di lavorare «per sé» durante il tempo libero, questi oggetti – a differenza degli strampalati ibridi arkhipoviani – testimoniano il desiderio di reintrodurre un barlume di normalità in esistenze altrimenti sconvolte. Assai eterogenei per perizia tecnica – si va dai pettini rudimentali per raccogliere i mirtilli alla scacchiera ricamata su un panno utilizzata nel carcere di Leopoli o, ancora, alla testa di bambola donata da una detenuta del campo di Karaganda a sua figlia – i manufatti selezionati da Glanc oscillano tra l’apparente banalità di oggetti di bricolage e lo status assertivo di veri e propri strumenti di lotta, volti a preservare la dignità individuale o la vita stessa dei prigionieri.
Questo corto circuito tra «stato d’eccezione» e quotidianità torna anche nel progetto Vita intima di Grigorij Speer che l’artista Bogdan Mamonov ha dedicato al suo bisnonno, uno tra i primi in Russia a coltivare l’hobby della fotografia stereoscopica. Sbirciate attraverso l’ingombrante congegno del taxiphote, queste immagini tridimensionali assumono una aura inquietante alla luce del destino di Speer, arrestato negli anni Trenta e morto suicida in carcere. Istantanee innocenti che eternano gli svaghi di una famiglia dell’alta borghesia russa si trasformano di colpo in prove indiziarie che Mamonov rielabora nei suoi lavori, facendo collidere tranche de vie e conoscenza a posteriori.
Se Roulette russa declina le occorrenze di un’oggettualità claustrofobica, sempre in bilico tra libertà e costrizione, le sezioni «occidentali» della mostra dimostrano come, a ovest dell’Oder, l’evasione dal tempo lavorativo coincida spesso con un ripensamento della propria fisicità e del rapporto con lo spazio.
All’oggetto prodotto con le proprie mani per contrastare una natura matrigna (e uno Stato che pare esserne la diretta emanazione) si contrappone qui l’immersione panica nell’ambiente extraurbano e la occasionale liberazione del proprio corpo dai tabu imposti dalla civiltà. Così è, ovviamente, per la pratica del nudismo diffusasi nei paesi germanici all’inizio del Novecento. Un’utopia egualitaria da lì a breve fagocitata dell’industria culturale nazista, come testimoniano le splendide foto di Gerhard Riebicke esposte nella sezione allestita da Oliver Zybok.
La stessa oscillazione tra spontaneismo e irrigimentazione riaffiora nel fenomeno schiettamente cecoslovacco del tramping, escursionismo più o meno improvvisato del fine settimana ispirato al mito americano della frontiera, la cui storia viene ripercorsa dall’ex artista Fluxus Milan Kníák, qui in veste di curatore. E la pervicacia con cui le autorità comuniste tentarono vanamente di scoraggiare questi «pionieri della domenica», non è che un ennesima conferma – se mai ce ne fosse bisogno – del significato politico del tempo libero.

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