OMAGGIO A nove mesi dalla morte due libri e un convegno a Fermo  ">

Luigi Di Ruscio, la strategia della digressione permanente

OMAGGIO A nove mesi dalla morte due libri e un convegno a Fermo 

OMAGGIO A nove mesi dalla morte due libri e un convegno a Fermo 
Si narra, a proposito della Maestà di Duccio, che, appena finita nel giugno 1311, tale era la sua fama che dalla bottega del pittore fu trasportata nel Duomo di Siena con una festa popolare con tanto di processione guidata dal vescovo e dalle autorità cittadine, mentre il popolo, portando candele accese, cantava ed elargiva elemosine. Certo è che Luigi Di Ruscio non avrebbe mai osato sperare in un analogo trattamento da parte di Fermo, la sua odiosamata heimat picena; del resto, scrive Angelo Ferracuti nella preziosa riedizione di Palmiro (Ediesse 2011) «una città papalina e bigotta come Fermo, con i suoi poteri antichi abbarbicati e aristocraticissimi, non poteva amare uno scrittore che per tutta la vita ha fatto l’operaio metallurgico, ispirato dai valori del comunismo e ossessionato dai simboli della chiesa cattolica, letterariamente eversivo e blasfemo».
Così questo «Jacopone operaio» (Di Stefano) avrebbe giustamente gioito per la giornata di studi che la sua città dedicherà domani a questo splendido outsider della nostra letteratura, spentosi il 23 febbraio scorso nella lontana Oslo, sua seconda patria d’elezione, dove aveva vissuto dal 1957, lavorando per trentasette anni come operaio metallurgico. Non possiamo abituarci a morire: così si chiama questo fermano Di Ruscio’s day, riprendendo non banalmente il titolo che l’autore di Cristi polverizzati appena ventitreenne, nel 1953, aveva dato a una sua plaquette, edita in 500 esemplari, e introdotta da una illuminata prefazione di Franco Fortini che ivi scriveva, individuando precocemente un tòpos che si riverbererà sulla vasta produzione letteraria, in versi e in prosa, dell’autore marchigiano: «questo giovane segna nitidamente il respiro d’ogni verso pur nella immediatezza della sua dizione, e fa d’ogni sua lirica un recitativo ricco di accenti interni. Gli aspetti risentiti del parlato e del gergo si sovrappongono intenzionalmente alle strutture della lingua colta e letteraria, per più forti risultati». Poi, a rendere ancora più speciale questa necessaria rivisitazione, due pubblicazioni che consentono di riaprire il «caso Di Ruscio»: la ristampa del romanzo Palmiro e l’uscita di Memorie immaginarie ed ultime volontà, da Senzapatria editore. Proprio quest’ultimo va considerato come un vero e proprio libro postumo e, per certi aspetti, consapevolmente testamentario: si pensi allo struggente explicit riprodotto qui sotto.
La provvidenziale riedizione di Palmiro, invece, modulato sulla «dialettica bloccata della testimonianza (…) di questo paradossale ‘historicus’» (Cortellessa), offre la possibilità di ritornare sulle pagine di questo sconvolgente esordio narrativo; si legga, a conferma di ciò, l’appassionato e lucido saggio introduttivo di Massimo Raffaeli che, una volta per tutte, assegna a Di Ruscio ciò che gli appartiene, a dispetto della sostanziale incomprensione da parte di quella critica più accademica e sussiegosa, incapace di maneggiare quello strano oggetto, irriducibile e incatalogabile, che è la lingua «sprocedata» di Palmiro, la sua prosa «briaca» e allucinata, piena di «ingarbugliati labirinti», sorta di brogliaccio perennemente in progress.
Raffaeli torna infatti sul famoso rifiuto opposto da Calvino a quello che doveva essere una specie di Ur-Palmiro, un dattiloscritto intitolato icasticamente Verbale e spedito alla Einaudi da Oslo vent’anni prima dell’uscita di Palmiro: «(…) Calvino, ostile a quelle pagine dove arriva però a sospettare, con fiuto infallibile, un ricordo di Louis-Ferdinand Céline “per la volontà di scaricare nel flusso delle parole una cupa aggressività”. Oggi sappiamo che Palmiro è un Céline depurato di aggressività e anzi integrato da un’inventiva tragicomica che rende esilarante, travolgente, e oculatamente sgangherata,la petite musique in cui Emanuele Zinato coglie una “strategia della digressione permanente”».
È stato lo stesso Di Ruscio a raccontare l’originalissima genesi («Nella sezione del Pci c’erano ammucchiati manifestini delle elezioni che non erano stati distribuiti. Pensai di scrivere un romanzo su quei fogli, scrissi tutti i giorni, poi emigrai nel 1957. Dopo una ventina d’anni ritrovai in soffitta quello che avevo scritto nel 1954. Sulla base di quello che avevo scritto tanti anni prima si è formato Palmiro») di questo folgorante esordio in prosa dove si racconta, con il ritmo straniante di un delirante romanzo di (s)formazione, la vita di un proletario adolescente, bocciato dalla scuola fascista, ma che si proclama poeta, mezzo bracciante e mezzo muratore, attorniato da una umanità avvincente, i cui nomi e le cui bertoldesche res gestae si accampano indelebili nella memoria del lettore, uno «straordinario poetico affresco del piccismo vissuto nella provincia italiana degli anni cinquanta» (Ferracuti), attorniato da un nucleo vitalissimo e picaresco di personaggi la cui onomastica – ma non solo – pencola tra Fellini e le Malebolge: Roscietta, Ciocca, Sgattone, Jacomollo, Scanna, Roffianetto.
Il libro uscì per Il lavoro editoriale di Ancona nel febbraio 1986, riproposto poi da Baldini&Castoldi nell’ottobre del ’96. Questa necessaria riedizione di Palmiro duplica integralmente la princeps, tanto da mantenere con garbo filologico in appendice anche la postfazione di Antonio Porta intitolata Il sogno che mi veniva incontro. Così, dopo decenni di ingiusta clandestinità, potremo tornare a divertirci e a commuoverci sulle pagine di questo romanzo. Divertimento e commozione che sovvengono anche davanti al prezioso portfolio che chiude questa riedizione, curato da Ennio Brilli, e che testimonia la rude fotogenìa di questo «sottoscritto poeta che ormai in molte prose riesce a poetizzare l’impoetizzabile». Affinché di lui non ci resti, come accade al gatto del Cheshire, solo la beffarda malinconia del suo ineffabile sorriso.

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Ritorno al niente da dove sono venuto

Luigi Di Ruscio

Ritorno al niente da dove sono venuto
Siate più lieti, leggermente più disinteressati, sorridete! Spero che concorrano alla vostra gioia le scritture più sconclusionate, anche nella situazione più insostenibile la certezza e la resistenza sono ancora possibili. Per un pubblico numeroso è necessario il ripetuto, la verità trafitta in pieno dalla poesia, il «tu» dedicato a tutti senza discriminazione alcuna. Vivere e morire senza accorgerci di niente, correndo come matti dietro improbabili onorificenze letterarie, inseguendo addetti regionali alla varie culture. Avessero ammazzato gli ebrei con l’idea di mangiarseli avrebbero pensato prima a ingrassarli, scrivo dunque un elogio al cannibalismo. Beati quelli che vivranno dopo di me. È così che capisci di andartene, gli sguardi dei tuoi cari si abbassano, le parole stentano ad esser pronunciate, i figli ammutoliscono. Divorato dalla febbre preparo la valigia per andare in ospedale. Le mani indugiano sulla cerniera, la paura è la stessa di quel giorno di maggio del 1957. Allora vi disponevo con cura i miei libri, con gli angoli delle pagine tutti arricciati; adesso i calzini, le mutande, i pigiami, perfettamente stirati e ricamati. Chiudo tutte le finestre, ripongo nella custodia la macchina da scrivere, ritorno tranquillamente nel niente da dove sono venuto. Nei miei versi è la mia resurrezione.

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