Vittorio De Seta • Addio a un documentarista lucido e poetico. Firmò i «Banditi di Orgosolo» e «Diario di un maestro». Fra gli ultimi film, «Lettere dal Sahara»
Vittorio De Seta • Addio a un documentarista lucido e poetico. Firmò i «Banditi di Orgosolo» e «Diario di un maestro». Fra gli ultimi film, «Lettere dal Sahara»
Ieri notte è mancato Vittorio De Seta. Difficile non essere retorici quando scompare una persona che ha segnato così profondamente il nostro modo di intendere il cinema. Il modo di rappresentare il mondo. L’uscita del documentario dalle sacche del cortometraggio procotto, verso un cinema di poesia e di ricerca. I suoi film sui dimenticati della storia – le culture subalterne, quelle immolate sull’altare della modernizzazione – non erano mai semplici film di denuncia e al di là del livello contenutistico palpitava sempre la remissione dello svelamento immediato, la fine delle spiegazioni a favore di un mirabile grand-tour dell’occhio. Il suo cinema volava alto, come le riprese su uno smarrito Jacques Perrin in Un uomo a metà; come i paesaggi della Barbagia visti dai pastori in Banditi ad Orgosolo; come le urla dei pescatori dalla cima dell’albero di Lu tempu de li pesci spata; come quei momenti in cui Renato Cirino, l’insegnante di Diario di un maestro, portava i suoi allievi-eroi-recuperati alla scuola pubblica, a vedere, finalmente, il centro di Roma.
Lo avevo sentito qualche mese fa. Stava montando un film epico, a base d’archivio, sulla follia delle guerre e sul desiderio di pace. Era preoccupato per i diritti, trovava incredibile che tutto quel girato non fosse libero, per tutti, a disposizione per nuovi film infiniti. Mi immagino che lavoro avrebbe potuto fare sul sonoro. Lui, fautore della più grande rivoluzione acustica del cinema italiano, il liberatore nazionale dalla voce narrante fascista e paradivina, l’affossatore del tappeto sonoro musiclassicheggiante: per accollarsi lo «sporco» peso di una fonosfera naturale fatta di paesaggi acustici dal vivo. «I canti, le voci, gli effetti sonori sono stati registrati interamente sul luogo e dal vero» riporta la didascalia di apertura in Lu tempu di li pisci spata.
Il suo era cinema-cinema, nessun blasone al mercato delle arti, lontano dalla pratica media del documentario nazionale a finanziamenti e professionalità separate. Un orizzonte estetico cementato da un approccio olistico, per il quale, soprattutto nei primi documentari, rispondeva più all’idea di filmmaker – girava da solo, con la moglie Vera e occasionali aiutanti trovati sul posto – che a quella di regista. Fra il 1954 e il 1959, in un quinquennio di sguardi resistenti alla riduzione culturale del paese, la sua postazione sui processi di assestamento identitario giunse a definire un archivio-decalogo senza precedenti. In quegli anni De Seta attraversa i paesaggi di vita di pastori, contadini, pescatori e minatori informando un corpus di opere folgoranti, di rara fusione figurativa fra sentimento etico e qualità estetica. Visioni accorate, gran parte delle quali in cinemascope: Isole di fuoco (1954), Surfarara, Contadini del mare, Pasqua in Sicilia, Parabola d’oro, Lu tempu de li pesci spata (tutti del 1955), Pescherecci, Pastori di Orgosolo, Un giorno in Barbagia (1958), I dimenticati (1959), sino al primo lungometraggio, Banditi a Orgosolo, inizialmente rifiutato dalla Titanus, poi vincitore del premio quale migliore opera prima alla XXII Mostra del cinema di Venezia, nel 1961. Ciò che interessa De Seta è la rimozione culturale che si sta compiendo negli anni del miracolo, questa vergogna posata, senza remissioni, su naturali appartenenze pluri-secolari: un sacrificio immane, dissolversi per grazia ricevuta (la modernità), scomparire da quel paese antico che fino allora le aveva custodite. Ma le sue opere godono anche di un accurato processo di messa in immagine. Lontane da qualsiasi calligrafismo, scolpiscono il tempo della materia cinematografica con la maestria delle poetiche dell’attesa: saper guardare, ascoltare, soprattutto esitare, lasciando pulsare quei momenti che sembrerebbero riempire il cestino delle sequenze perdute.
Eppure, in produttiva tensione stilistica, il cinema di De Seta è anche un cinema di costruzione. Sembra una contraddizione ma in questa sfida estetica sta il valore delle sue opere. Alberto Farassino ricordava che De Seta «rappresenta uno dei pochi autori «operistici» per scelta, per progetto stilistico, per cultura… De Seta è certamente vicino a Visconti, ma non solo a quello neorealista, anche al Visconti di Senso e del Gattopardo. Poiché i suoi documentari sono grandi melodrammi del lavoro, della terra e del mare». De Seta è meno interessato di Visconti alla redenzione dell’umano attraverso il politico: i suoi film informano ma non progettano. Comunque poemi del lavoro, i cui eroi si godono la serale vittoria sulla quotidiana sopravvivenza, abbarbicati al cerchio caldo della comunità. Dopo la critiche subite per Un uomo a metà – un film potente, accusato sia dalla critica cattolica che quella marxista di avere abbandonato la lezione del neorealismo per «scivolare» sulla psicanalisi – De Seta dirige uno dei masterpiece del cinema italiano, Diario di un maestro (1973, proiezione omaggio oggi al festival di Torino). Lavorando con un gruppo di bambini dei quartieri romani di Torraccia e di Pietralata, prodotto da una tv di stato ancora capace di investire sulla sperimentazione, De Seta compone un film dall’alto valore programmatico per un’idea di cinema della improvvisazione. L’opera, ispirata alle sperimentazioni didattiche di Albino Bernardini in una borgata romana (e descritta nel suo libro Un anno a Pietralata), viene girata da De Seta con la consulenza di pedagogisti del Cnr. Il film va in onda nel corso di 4 domeniche, riportando dati d’ascolto favolosi per l’epoca, e convincendo i dirigenti Rai a editarne una versione ridotta, per le sale cinematografiche. È ambientato in una scuola media della periferia romana, vissuta attraverso le esperienze di un giovane insegnante e dei suoi alunni. Ma il valore del film non risiede solo nei temi affrontati quanto nella capacità di comporre un’opera ibrida, pulsante sudore narrativo e, al tempo stesso, attenzione alla sacralità dell’accadere. L’aspetto fondamentale di Diario di un maestro attiene proprio al felice ondeggiare fra sequenze previste in sceneggiatura e momenti di deriva improvvisativa, nei quali i ragazzi inscenano «naturalmente» il loro mondo fisico e le loro appartenenze immaginifiche, coinvolgendoci in una acuta esplorazione.
La collaborazione con la Rai consente di produrre una importante inchiesta sui cambiamenti del sistema scolastico – Quando la scuola cambia (1978) – ulteriori riflessioni sulle ridefinizioni antropologiche del nostro paese – La Sicilia rivisitata (1980) – o di altri luoghi – Hong Kong, città di profughi (1980) – nonché, prima di un decennale ritiro a Sellia Marina, vicino a Catanzaro, Un carnevale per Venezia (1982). Il successivo distacco dal cinema si compie dopo seri problemi di salute e la scomparsa della moglie Vera Gherarducci, compagna di vita nonché preziosa collaboratrice dei suoi primi documentari; in seguito all’abortito progetto per il film Vita di Paolo di Tarso (tre anni di lavoro e 1100 pagine di sceneggiatura già scritte), mai giunto a termine per dissidi produttivi tra i due committenti, la Rai e la San Paolo; per le difficoltà di accettare i meccanismi produttivi di un sistema industriale al quale non sentiva di far parte e non riesciva ad adattarsi. Le stesse difficoltà che avrebbero permeato l’ultima sua opera, Lettere dal Sahara, uscita dopo mille difficoltà produttive. «Un film non si può prevedere sulla carta – diceva De Seta -. È qualcosa di vivo che, nel corso della ripresa, quando comincia a esistere, diventa un interlocutore e comincia a dettare le proprie condizioni…»
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