POESIA Un convegno da domani a Roma per ricordare lo scrittore in occasione del centenario
POESIA Un convegno da domani a Roma per ricordare lo scrittore in occasione del centenario
L’impossibilità di dare per scontate le coordinate della sua scrittura è al centro dell’opera del grande poeta polacco Alla fine degli anni Cinquanta Czeslaw Milosz, sulle sponde idilliche del lago di Ginevra – che da lì a breve avrebbero visto l’arrivo di un altro esule illustre, Vladimir Nabokov – fu visitato da un’inconsulta fantasia apocalittica. Anche se un cataclisma cancellasse Parigi dalla faccia della terra, sarebbe pur sempre agevole ricostruirne il profilo nell’immaginazione, tale è la ricchezza dei riferimenti letterari («allusioni») o del corredo iconografico di cui disponiamo. Ma quale immagine poteva mai evocare nella mente dei lettori occidentali il nome della sua città natale, Seteniai? Che cosa significava per lo scrittore espatriato provenire da «regioni nebulose, sulle quali i libri e i manuali danno poche notizie e, se mai, errate»? E come rimediare a questa tabula rasa iconologica, se persino sul nome della città in cui aveva trascorso la giovinezza (Vilna per i tedeschi e i bielorussi, Vilnius per i lituani, Wilno per i polacchi) non sembrava esistere un accordo, un’univocità in grado di riscattarne la posizione irrimediabilmente decentrata che occupava nell’immaginario collettivo?
La «condanna» a cominciare ab ovo la propria narrazione, la percezione quasi paralizzante che sia giocoforza spiegare ogni volta chi si è e da dove si viene, nell’impossibilità di dare per scontate le coordinate della propria scrittura, è al centro del saggio parigino del 1959 Rodzinna Europa, ovvero Europa familiare nella traduzione letterale di Riccardo Landau, La mia Europa in quella più personale di Pietro Marchesani o, addirittura, L’autre Europe nell’edizione Gallimard del ’64, a conferma di un pervicace orientalismo di cui Milosz era pienamente consapevole. Qui il topos della «piccola patria» interiore che l’esule reca con sé si trasfigura – forse in omaggio alla nozione di musée imaginaire allora elaborata da Andre Malraux – nella metafora del museo, inteso nella accezione etimologica di casa delle Muse, l’unica in cui il poeta sradicato si senta a proprio agio: «Arrivato all’età della maturazione, portavo in me un museo che si muoveva e si deformava». Altrove invece è l’eco di una commossa ecumene umana percepita «al di sopra di acque, città, strade, costumi» ovunque e in qualsiasi lingua risuoni «il canto di un bambino, la conversazione di amanti» a circoscrivere con tratti immateriali la patria dell’esule. Una persistenza sonora che si contrappone alla sua lingua ammutolita di sopravvissuto «colpevole» alla catastrofe bellica: «Non possiedo, lo giuro, la magia della parola. / Ti parlo tacendo, “come una nuvola o un albero», dirà nel 1945 agli innocenti che la poesia non ha potuto salvare.
E alle dimore reali e immaginarie dello scrittore, disseminate tra Parigi e la remota Lituania, tra la Varsavia del ghetto in rivolta e il Campo dei Fiori di Giordano Bruno, rinvia anche il titolo del convegno Il mondo familiare di Czeslaw Milosz, organizzato dall’Università La Sapienza e dall’Istituto culturale polacco, che si terrà a Roma presso varie sedi da domani a sabato 3 dicembre (mondofamiliare.wordpress.com). Centrale in questo omaggio nel centesimo anniversario della nascita resta l’immagine complessa del «fanciullo d’Europa» evocata in una poesia del ’45, nonché quel senso di colpa del sopravvissuto ai disastri della guerra in cui già Iosif Brodskij ravvisava il nucleo più sofferto della poesia di Milosz.
Una «europeicità» quella dello scrittore insignito nel 1980 del premio Nobel tematizzata ora come incurabile destino (nell’intervento di Marek Zaleski dedicato alla «sconfitta» costituita dall’emigrazione americana), ora come non meno problematica appartenenza all’autre Europe. Condizione quest’ultima che Andrzej Franaszek riconnetterà alla metafora del «barbaro nel giardino» elaborata da Zbigniew Herbert nel suo diario di viaggio del 1962, mentre Laura Mincer e Giovanna Tomassucci la rileggeranno alla luce di quella «fine dei mondi» che nell’Europa orientale è stata la Shoah.
La sovrapposizione tra paesaggi della memoria e palinsesti culturali nell’immaginario poetico dell’esule verrà scandagliata da Robert Cieslak, mentre Aleksander Fiut e Ryszard Nycz approfondiranno il tema dell’instabilità geografica di Milosz, «Gulliver del ventesimo secolo». Ancora, le suggestioni intellettuali derivanti da una simile irrequietezza saranno al centro delle riflessioni di Irena Grudzinska Gross (a proposito dell’«ispirazione francese») e di Luca Bernardini su Milosz e Nabokov docenti d’eccezione di letteratura russa nell’America degli anni ’50 e ’60. Se Francesco M. Cataluccio si interrogherà sul significato filosofico dell’opera di Milosz, schiettamente poetologici appaiono gli interventi di Jerzy Jarzebski, Krzystyna Jaworska, Andrea Ceccherelli e Marina Ciccarini. Cosa significhi «traghettare» Milosz in contesti culturali tanto differenti quali quelli delimitati dalla lingua italiana, albanese, ucraina e romena sarà il tema dell’incontro tra traduttori che si terrà sabato 3 all’Accademia polacca. Infine il simposio troverà un o contrappunto visivo nella mostra Dove il Tevere snoda il tempo… curata da Monika Wozniak e visibile alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma fino al 30 gennaio 2012.
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