«E ora? Ci rivediamo a Liberty Plaza»

NEW YORK . Nella piazza «ripulita» La notizia a me è arrivata alle cinque e mezzo, subito dopo la chiamata del muezzin che invita alla moschea non distante da casa mia e mi sveglia ogni mattina. Alle sette ero a Zuccotti Park ma era già  tutto sgombro e mi sembrava che un pezzo di città  fosse stato tagliato dalla mappa, come un vestito accorciato.

NEW YORK . Nella piazza «ripulita» La notizia a me è arrivata alle cinque e mezzo, subito dopo la chiamata del muezzin che invita alla moschea non distante da casa mia e mi sveglia ogni mattina. Alle sette ero a Zuccotti Park ma era già  tutto sgombro e mi sembrava che un pezzo di città  fosse stato tagliato dalla mappa, come un vestito accorciato. I poliziotti erano particolarmente aggressivi, soprattutto con me, che all’angolo, pericolossissima, una signora con il suo cappottino e il suo cappelluccio nero e le lacrime agli occhi, di certo aveva chissà quale disegno criminale nascosto nella borsa piena di libri di filosofia morale e degli esami corretti da riportare agli studenti più tardi.
«Agente, ma per davvero non posso rimanere qui sul marciapiedi a piangere un pochino?» ho detto al ragazzetto armato fino ai denti con gli occhioni azzurri, più giovane di mia figlia. «No, signora, non può , attraversi la strada». «Lì, dove dice Liberty Plaza, n.1? Lì posso piangere?» «Signora, non esageri!» ha alzato la voce e mi è sembrato anche il collo, dietro lo scudo trasparente. Mi ha tratto in salvo la mia amica Maria che ha uno spazio alternativo dove spostare l’occupazione a Brooklyn: «Te lo spiego davanti a un caffè, che qui ci arrestano, Tippy».
Sulla strada chiediamo ad un ragazzo vestito da Buffalo Bill dove sono andati tutti. A Foley Square, di fronte a City Hall, dove una delegazione è con Bloomberg per trattare le ore future. «Non ti preoccupare, ragazzo» gli dico e gli faccio una carezza e lui, sconsolato, mi risponde: «Grazie, signore, per la vostra solidarietà». Di chi è questa occupazione? «Stiamo invecchiando, Maria». E davanti al cappuccino ce lo diciamo che a parte il blitz di questa note, il movimento non è comunque senza alternative, che a parte Zuccotti Park altre soluzioni si stanno già organizzando per l’inverno newyorchese, per antonomasia rigido. Il parco, come simbolo, è importante e va protetto ma il movimento non dipende certo da esso. Ci salutiamo, proseguo per Foley Square. Qui incontro Ray Kachel, di Seattle. Mi racconta: «Sono arrivati all’una, ci hanno dato pochissimo tempo. Ma li aspettavamo da una settimana sai? C’erano state voci che sarebbero arrivati. Sono tattiche antiche, che funzionano bene. Quando si viene svegliati all’improvviso e più facile che si sia disorientate, meno propensi a seguire ordini, ed è molto più semplice venire provocati».
Duecento arresti. Lui si è defilato verso il fiume East. «È stato un poliziotto semplice che mi ha detto come fare per evitare i casini, non uno di quelli agguerriti in assetto da guerra. Ho seguito il suo consiglio ed eccomi qui». I poliziotti venivano fatti rotare ogni settimana, per paura che si affezionassero ai manifestanti, questo me lo ha detto la mia “nipotina” Imara che da settembre è andata a fare i compiti a Zuccotti Park, ogni giorno dopo scuola. Ammetto di aver tirato un sospiro di sollievo al pensiero che abbiano fatto il blitz di notte e non di pomeriggio quando ci sarebbe stata anche lei. Ma quando mi passano davanti due ragazze con la faccia nera e blu mi si rivoltano le budella. Mi alzo e fermo un poliziotto di nome Clark. Mi presento, gli do la mia carta da visita, gli stringo la mano.
«Agente, mi spiega perché ne avete arrestati duecento?» «Ogni arresto è giustificato ed è diverso da un altro, non saprei dirle, io non ne ho fatto nessuno da stanotte, ma sono stato lì ogni giorno per una settimana e potrei raccontarle molte cose di quello che ho visto e di come la gente è stanca a New York del fatto che per accorrere a Wall Street e mantenere l’ordine al Zuccotti Park c’è stato bisogno di sottrarre forze dell’ordine in altri quartieri». «Beh, non è colpa nostra se la gente ha paura di noi, agente. Non può mica ritenerci responsabili dell’isteria cittadina?» «Anche voi avevate bisogno di noi nel parco». «Ah sì? Che ci proteggete da chi? Da noi stessi?» «È successo anche questo». «Come in ogni microcosmo, certo, agente, e sarebbe bastato chiamare la polizia del quartiere, non avevamo mica bisogno di un dispiegamento personale della guardia nazionale. Non le pare?» «E perché il numero del distintivo e del nome era coperto dal nastro isolante stanotte, quando siete venuti a distruggere il nostro microcosmo, questo me lo sa dire?» urla un arrabbiatissimo professore italo-americano che si trova a passare in quel momento e coglie per un attimo un frammento della nostra conversazione. «Questo sarebbe stato illegale» ci informa Clark. «Lo dice a me? Lo dica a Bloomberg, lo dica ai suoi superiori, lo dica a se stesso» urla il professore.
L’agente Clark si indigna. «Signore, io non ho niente da nascondere» e si sbottona la giacca, «ecco il mio distintivo, ecco il mio nome» e voltandosi verso di me: «Tippy, lo scriva dove deve». Riporto a stento la calma, con il signore italo-americano con cui scambio delle affettuose parole contro Mussolini e Berlusconi e con Clark con cui scopriamo di abitare nello stesso quartiere a Brooklyn. Intanto mi arriva la notizia che il magistrato della corte suprema Lucy Billings ha sentenziato che i protestanti possono rientrare a Zuccotti Park con le loro tende. Informo i presenti. Clark mi guarda serio e sospira. «Torno a Liberty Plaza, si ricomincia». Ci vediamo lì più tardi.

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