Il testamento di una vicenda d’amore

«Die Welt ist leer, ich will nicht leben mehr»: il mondo è vuoto, vivere non voglio più. Queste parole mi tornano alla mente di continuo da quando Lucio se n’è andato. Risuonano nel sogno ricorrente di André Gorz, di cui Lucio di tanto in tanto parlava. Gorz decise di morire con la moglie Dorine quattro anni fa.

«Die Welt ist leer, ich will nicht leben mehr»: il mondo è vuoto, vivere non voglio più. Queste parole mi tornano alla mente di continuo da quando Lucio se n’è andato. Risuonano nel sogno ricorrente di André Gorz, di cui Lucio di tanto in tanto parlava. Gorz decise di morire con la moglie Dorine quattro anni fa. Lasciò la storia del loro amore, uno struggente testamento nel quale Lucio si riconosceva. «Sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai…».
Leggo che Lucio era depresso, io non credo. La sua, in questi anni seguiti alla scomparsa di Mara, era una malinconia particolare, lucida e cosciente. Non uno sprofondare nel buio, ma la considerazione impietosa del dileguare del senso e del valore. Non un lasciarsi andare, ma un decidere consapevole delle proprie ragioni. Questo gli ha permesso di portare a termine, nonostante un dolore inemendabile, uno dei libri più belli e importanti su di noi – sui comunisti italiani e sul comunismo novecentesco – che siano mai stati scritti. Il libro della sua vita, individuale e collettiva. Riconosciuto all’estero più che in Italia – e qui Lucio scorse, con profonda amarezza, un segno dei tempi.
La politica e la storia, le passioni di una vita. Ancora pochi giorni fa disse, con quel suo sorriso discolo e dolcissimo: siamo stati fortunatissimi, la mia generazione non ha conosciuto la guerra e ha fatto una rivoluzione: una vita meravigliosa. Tornare con la mente alla politica era un balsamo. Parlare, ricordare, domandare. Gli interessava come sempre anche questo nostro desolante presente. Lo tormentava la decadenza intellettuale e morale che lo affligge (e ricordava Pasolini), ma non è vero che disperasse. L’anno scorso venne a Montesole, sull’Appennino bolognese, a discutere del Sarto di Ulm con una cinquantina di ragazzi, giovani compagni calamitati dal suo sguardo e dalle sue parole. Fu una giornata indimenticabile, che spesso rammentava. I giovani, sui quali oggi si scarica la violenza di questa società, continuavano a sembrargli portatori di una viva speranza.
E gli interessava la storia, perché un rovello imponeva la ricerca delle cause della sconfitta e di una crisi radicale del movimento di classe: la paziente ricognizione delle responsabilità. Nella riflessione storica Lucio trovò in questi anni la dimora. Marx e Gramsci, Togliatti e Lenin, Longo e Stalin (anche Stalin, perché non c’era in lui l’ombra del conformismo) erano compagni di una incessante interrogazione. E poi Enrico Berlinguer, compagno e amico, criticato senza attenuanti per gli errori (il compromesso storico), ammiratissimo per il carisma e per la forza mostrata nella svolta degli anni Ottanta.
Un comunista: così Lucio si definiva, senza orpelli né vezzi, con l’orgoglio della coerenza. Detestava il narcisismo e disprezzava l’opportunismo. Da ultimo, meditava di tornare sulla storia degli ultimi quarant’anni, dalla nascita del manifesto al Pdup, a Rifondazione. Ma la stanchezza ha vinto, purtroppo, sulle residue energie. «Ciao, vecchio», mi diceva quando ci vedevamo, e aveva ragione, tra noi il ragazzo era lui. Ciao, Lucio.

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