Il ribelle del «manifesto» che seppe raccontare la sinistra

Gli esordi nella Dc, poi il Pci e la contestazione del ’68

Gli esordi nella Dc, poi il Pci e la contestazione del ’68

Chi negli ultimi mesi ha avuto modo di incontrare Lucio Magri, (dunque non solo le sue compagne e i suoi compagni più cari, che lo sapevano) in qualche modo poteva presagire che sarebbe finita, anzi, che l’avrebbe fatta finita così: andandosene di sua volontà. In quella specie di vivente museo degli orrori che è diventato il nostro dibattito pubblico, non manca qualche polemica indecente: da un lato i sostenitori del «lucido gesto di coraggio», dall’altro (peggio) i teorici del suicidio assistito come estremo atto di viltà o esercizio di un diritto che Dio non ci ha dato, in mezzo ma non troppo Rocco Buttiglione che manifesta, ci mancherebbe, la sua pietà, ma avverte pure che vita, famiglia e morte sono affari di pertinenza dello Stato. Meglio tenersene rigorosamente alla larga. Di certo c’è che Magri, dopo la morte dell’amatissima Mara, era un uomo come spezzato, depresso: non faceva mistero di aver faticosamente finito di scrivere per il Saggiatore il suo «Sarto di Ulm» soprattutto per rispettare il desiderio di lei. Sul resto, la regola d’oro è, o dovrebbe essere, quella del silenzio: nessuno, né la persona più vicina né tanto meno un magistrato o un poliziotto, può arrogarsi il diritto di stabilire che cosa passi nella mente e nel cuore di una persona che, dopo aver tanto vissuto, ha deciso di morire.
Meglio, molto meglio dunque scrivere di Magri vivo, della sua biografia politica e intellettuale così complessa. Nasce, Lucio, democristiano, seppure di un tipo particolarissimo, e lo resta sin quasi alla fine degli anni Cinquanta, quando, dopo un percorso tormentato, approda con un nutrito gruppo di giovani (valgano per tutti i nomi di Beppe Chiarante e di Ugo Baduel) al Pci. Che accoglie Lucio e i suoi compagni a braccia (relativamente) aperte, non tanto, comunque, da dare subito loro un ruolo nazionale. E così Magri se ne torna in Lombardia, prima a guidare la federazione di Bergamo, poi nel comitato regionale. Siamo agli inizi dei Sessanta, si avvertono i primi segni del disgelo politico e culturale: anni interessanti, ma pure contraddittori. Sulla scrivania dell’ex democristiano Magri, in federazione, campeggia provocatoriamente un grande ritratto di Stalin; il suo compagno di stanza, il cremonese Renzo Bardelli, quando può lo tira giù, lui lo riappende. Ma quando Magri decide (da solo) di buttare giù lui il documento politico in vista di un congresso regionale, Palmiro Togliatti, prima di cestinarlo, trova il modo di dirgli che molte delle cose che ha scritto le sosteneva, orrore, Leone Trotsky.
Anche se, quando arriva a Botteghe Oscure, lavora con Giorgio Amendola alla commissione economica, Magri è, si capisce, ingraiano. Molto ingraiano. Così ingraiano che, quando scoppia il Sessantotto, non si capacita della prudenza e dello spirito di partito di Ingrao. Vola nella Parigi della contestazione studentesca e operaia, appena tornato scrive un libro, «Considerazioni sui fatti di maggio» che ha grandi fortune soprattutto, ma non soltanto, nella sinistra comunista e dintorni: «Ho cominciato a capire e ad apprezzare la sinistra italiana leggendolo», mi disse non troppi anni fa Kastern Voigt, un apprezzato dirigente della socialdemocrazia tedesca. Ma lui, Magri, non è certo un socialdemocratico, e nemmeno un riformista. Con Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina e Massimo Caprara è tra i fondatori de il manifesto, che esce per la prima volta, come mensile, nel giugno del 1969: un atto di aperta insubordinazione nei confronti dei canoni consolidati del centralismo democratico. Non è vero che il Pci, e in particolare Enrico Berlinguer, decidano immediatamente di cacciar via i reprobi. In ottobre, il comitato centrale comunista si conclude evitando rotture definitive, solo a novembre il parlamentino del Pci provvederà alle «radiazioni» del caso. Tra la prima e la seconda riunione la rivista ha pubblicato un editoriale, «Praga è sola», in cui si contesta al Pci di aver abbandonato al loro destino Alexander Dubcek e i suoi compagni. È il casus belli. Quell’editoriale lo ha scritto Magri.
Poi, la storia è abbastanza nota: il manifesto che da mensile diventa, e con grande successo, quotidiano, gli anni Settanta, la contestazione da sinistra al Pci, il Pdup di cui Magri è segretario e, nel 1984, un rientro nel partito che non è un addio alle armi, ma una scommessa politica sull’ultimo Berlinguer che si rifiuta al riformismo, apre ai movimenti, insegue la Terza Via. Di tutto questo e di altro ancora Magri disse nel «Sarto di Ulm», a mio giudizio la più seria lettura «da sinistra» delle vicende del comunismo italiano, e di una possibile storia diversa sua e della stessa democrazia italiana. In questi termini, seppure non condividendola, ne scrissi sul Corriere. Mi ringraziò, ci incontrammo, discutemmo. Una bella discussione come quelle di un tempo. Sono contento, ora che Lucio non c’è più, che tra noi sia andata così, l’ultima volta.

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