PLURALE FEMMINILE Domani a Genova si apre un convegno che già dal titolo, «Io sono molte. L’invenzione delle personagge», interroga il sistema di potere della lingua e della letteratura
PLURALE FEMMINILE Domani a Genova si apre un convegno che già dal titolo, «Io sono molte. L’invenzione delle personagge», interroga il sistema di potere della lingua e della letteratura
Il personaggio è l’esca che attira il lettore dentro al testo. Il formaggio che prende il topo in trappola. Se il personaggio funziona a dovere, i lettori lo seguiranno come una sirena o un pifferaio magico, dimenticando loro stessi. Ne saranno sedotti e vorranno essere come lui: se il testo funziona a dovere, saranno lui punto e basta. Si chiama potere dell’immedesimazione. La strada migliore per diventare pazzi, secondo Jean-Jacques Rousseau; quella più adatta a mantenere guizzo il cervello e aperta l’identità, secondo le moderne teorie della mente.
In ogni caso, il personaggio-tipo è maschio. Lo dice anche la grammatica, che non prevede declinazione al femminile. Mentre il topo da catturare è sia maschio che femmina. Anzi, spesso più femmina che maschio, data l’invasione di lettrici che si registra in epoca moderna. Ora, il punto è capire cosa succede a una lettrice quando viene presa all’amo dei tanti eroi di sesso maschile che popolano la letteratura di tutti i tempi. Ce lo diciamo solo sottovoce, ma è chiaro che ognuna di noi è stata di volta in volta Achille, Enea, Robinson Crusoe, Julien Sorel o il principe Andrej. Per non parlare di Dante o Petrarca: chi vorrebbe mettersi seriamente nei panni di Beatrice o di Laura, che oltretutto finiscono quasi subito male? Diventare lettrici vuol dire, insomma, essere sottoposte alla tortuosa prova di un doppio salto mortale: non solo cambiare se stessi, ma anche mutare di sesso.
Poi venne Lady Oscar. E la faccenda si fece più interessante. Ma anche più vertiginosa: la lettrice-spettatrice che seguiva il famoso anime giapponese degli anni Ottanta (tratto da un manga altrettanto popolare) si immedesimava nell’affascinante protagonista maschile, che essendo però soltanto travestito da maschio, offriva alle lettrici il piacere di un ulteriore salto carpiato per tornare infine a coincidere con loro stesse. Dietro il personaggio c’era una personaggia. Un drag king a tutti gli effetti. Che ci illuminò su un punto cruciale della nostra travagliata storia d’amore con i personaggi: potete darci tutte le bambole che volete, vestite da mamme, da amanti, da intellettuali o da eroine; ma solo quando si mascherano da uomo e iniziano a correre allegramente in calzoni per il mondo, riescono a darci vera soddisfazione.
Theophile Gautier l’aveva già sperimentato nel lontano 1835, raccontando le avventure galanti di Mademoiselle de Maupin che travestita da Theodore espugnava cuori sia maschili che femminili, con stuzzicanti allettamenti omoerotici. Il racconto del 1963 di Isaac Bashevis Singer, intitolato Yentl, the Yeshiva Boy riproponeva lo stesso tema in salsa yiddish; Barbara Streisand ne trasse all’inizio degli anni Ottanta un film musicale che travasò quell’effetto a cipolla sul grande pubblico. Dietro l’io c’è un altro, e dietro l’altro un’altra. Se sfogli la cipolla, forse riuscirai finalmente a trovare te stessa.
La ferita ideologica ha, infatti, una fondamentale radice narrativa: se la libertà narrativa del personaggio sta tradizionalmente tutta da una parte, quella maschile, e dall’altra rimangono solo lacrime e sangue, noia, stereotipi, sentimentalismi, che ci rimane da fare se non capriole di identità? Il bambino, leggendo storie di personaggi uguali a lui, si rispecchia e intanto cresce. E la bambina nel frattempo che fa? Aspetta di scoprire una personaggia dietro il personaggio, che le strizzi l’occhio rassicurandola sul fatto che ci sia un posticino anche per lei nel fantastico mondo di chi è libero e bello. Magari usurpato, quel posto, ma da godersi fino in fondo.
Personaggia è una parola che non suona bene, lo so. Credo che lo sappiano anche le Letterate che l’hanno scelta come titolo del convegno che inizia domani a Genova (Io sono molte. L’invenzione delle personagge). Ma proprio lo stridore ci deve far pensare. Lo stridore ci serve. Come quando si prende un nome maschile e lo si torce forzatamente al femminile per canzonare il «vizietto» del proprietario di quel nome.
C’è qualcosa che nel peggiore dei casi disturba, nel migliore ahimè fa ridere. Certo non lascia indifferenti. Forzando il linguaggio, lo si porta fuori da se stesso, in un territorio sconosciuto dove il solido legame tra parole e cose non si può più dare per scontato. Anche la lingua è costretta a fare una capriola, qualche salto mortale per ritrovare un senso. Mostrando quanto sia difficile uscire dai confini del senso comune.
Perché una volta usciti, è tutto un sistema a crollare. Se il mondo fosse improvvisamente capovolto e invaso di personagge, come farebbero i bambini a modellizzare la propria mascolinità come la società vuole? Dovrebbero sperare che dietro la loro personaggia preferita ci fosse un maschio nascosto. Sarebbero obbligati a farlo, a un certo punto, per dare sfogo alla propria personaggitudine censurata. Se le personagge prendessero il comando, esiliando i personaggi in un’isola deserta, fuori dalla lingua, ci sarebbero molti chilometri di mare da attraversare per ritrovarli, una gran fatica da fare. E intanto crollerebbe un intero sistema di potere. Fondato sulla forza della sua autorappresentazione.
I personaggi femminili, com’è noto, sono per lo più proiezioni di sguardi maschili. E anche quando lo sguardo è femminile, non sempre riesce a scrollarsi di dosso stereotipi tanto onnipresenti. Si pensi a quanto un aggettivo in più o in meno cambi tutto: il personaggio campeggia sul suo piedistallo senza aggettivi, grazie a un’autonomia acquistata da secoli e secoli di letteratura; mentre il personaggio «femminile» è solo una delle tante sue possibili variazioni, più o meno aggraziata. Come la festa della donna o quella della mamma. Per questo le personagge senza aggettivi sono tanto simili a degli alieni. Sembrano venire da un altro mondo. Hanno un altro profumo. Di futuro o forse di fantascienza; di gioco, anche, e di liberazione.
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