NEW YORK — Digitando la parola «Occupy Wall Street» su Amazon si ottengono 500 pagine di adesivi, borse, spille, scarpe e magliette. Oltre 5.000 su eBay, addirittura 473 milioni su Google. Per fermare la proliferazione di ditte e privati decisi ad arricchirsi alle loro spalle, i manifestanti accampati da più di un mese nella downtown per protestare contro lo strapotere del capitalismo, hanno deciso di registrare il proprio marchio.
NEW YORK — Digitando la parola «Occupy Wall Street» su Amazon si ottengono 500 pagine di adesivi, borse, spille, scarpe e magliette. Oltre 5.000 su eBay, addirittura 473 milioni su Google. Per fermare la proliferazione di ditte e privati decisi ad arricchirsi alle loro spalle, i manifestanti accampati da più di un mese nella downtown per protestare contro lo strapotere del capitalismo, hanno deciso di registrare il proprio marchio.
Nella domanda presentata all’U.S. Patent and Trademark Office lo scorso 24 ottobre, l’avvocato dei dimostranti, Samuel Cohen, chiede all’ufficio brevetti statunitense di assegnare l’esclusiva del marchio «Occupy Wall Street» ai suoi clienti. I quali, si legge nel documento, «intendono utilizzarlo legalmente su merchandise, periodici, newsletter, video, giornali e siti web», destinati a sponsorizzare il movimento non profit di protesta che sta riconfigurando il volto — e l’anima — della sinistra americana.
Un ossimoro che cozza con le idee degli «indignados» statunitensi? Forse. Ma il vero problema è un altro. E cioè che i ragazzi con la chitarra e i capelli lunghi di Zuccotti Park non sono gli unici a voler trarre profitto da un brand ormai consolidato, con milioni di fedeli adepti in tutto il mondo pronti a sborsare i soldi di mamma e papà per poterlo esibire.
In una richiesta pervenuta all’ufficio brevetti nello stesso giorno, la Fer-Eng Investments Llc dell’Arizona chiede formalmente l’identico copyright. E se non bastasse, un’altra petizione inviata lo scorso 18 ottobre da una coppia di Long Island, Diane e Robert Maresca, mira a registrare la versione abbreviata del nome: «Occupy Wall St». «Ho intenzione di devolvere una cospicua parte degli introiti al movimento», giura Robert, che durante la sua permanenza nel parco occupato di Wall Street ha distribuito gratis centinaia di T-shirt da lui decorate a mano col pennarello.
L’ultima parola spetta all’U.S. Patent and Trademark Office che tradizionalmente premia chi presenta per primo la domanda. In questo caso i manifestanti, che hanno depositato la loro «application» alle 15.54 del 24: tre ore e ventisette minuti prima della Fer-Eng Investments. E i Maresca? «Loro non contano», replica l’avvocato degli «indignados» Cohen, «perché vogliono registrare un diminutivo, non il nome originale».
La guerra si annuncia senza esclusione di colpi anche su altri fronti. «Siamo stati inondati di richieste per registrare altri slogan e frasi legati al movimento», mette in guardia Stephen Berk, avvocato supervisore dell’U.S. Patent and Trademark Office, da «Siamo il 99%» a «Occupy DC2012» e da «Sono l’1%» a «Ho occupato Wall Street».
Oltre alla facoltà di sfruttare a scopi di lucro un logo celebre in tutto il mondo, il vincitore potrà citare per danni chiunque osi utilizzarlo illegalmente, ottenendo risarcimenti milionari. Ciò non ha scoraggiato l’imprenditore Ray Agrizone, che si autodefinisce «un entre-protester» (un imprenditore che protesta) di vendere i suoi tanti prodotti col logo «Occupy Wall Street» (T-shirt, cappelli, adesivi, ombrelli, borse da ufficio e da spiaggia, scarpe) sul sito TheOccupyStore.com.
«Non ho paura di potenziali querele», assicura Agrizone alla Cnn, «perché uso i miei profitti per contribuire alla causa». Anche lui come Maresca, insomma. Ma alla domanda «quanto ha intenzione di elargire?» non si scompone: «Circa il 10% degli utili». Quanto basta a mettersi l’anima in pace.
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