SAGGI «Gli amici non si danno del tu» di Bruno Moroncini
SAGGI «Gli amici non si danno del tu» di Bruno Moroncini
Una riflessione sull’amicizia che prende spunto dal rapporto tra Maurice Blanchot e Dyonis Mascolo Difficile cogliere l’istante in cui qualcosa scatta, l’attimo nel quale un’amicizia nasce. Forse perché – come scriveva Maurice Blanchot, che alla figura dell’amico ha dedicato una riflessione originale e attenta – non c’è un colpo di fulmine dell’amicizia. L’inizio è sempre incerto, confuso in un lavorio che si fa rapporto costante solo nell’incedere del tempo. «Si era amici e non lo si sapeva». Eppure il tempo, osserva Bruno Moroncini, in un libro (Gli amici non si danno del tu, Cronopio, pp. 43, euro 5) tanto breve quanto stimolante, che parte proprio dal rapporto di amicizia tra Blanchot e Dyonis Mascolo, non è una monotona successione di istanti. Il tempo procede a scatti, retroazioni, quasi in una «affezione della morte» che non è mai indolore. Lo scorrere del tempo dà quindi forma «allo iato incolmabile che si apre tra il passato e l’avvenire, è il computo delle perdite che non verranno risarcite, delle omissioni che non saranno riparate, è la misura dell’irreversibilità del cambiamento». Il tempo che bisogna aspettare per riconoscere l’amico non è dunque generico o astratto, ma quello in cui incontriamo la morte, che ci sfiora, ma ci manca d’un soffio. È su questo punto che il lavoro di Moroncini si rivela importante, perché affonda nella discrezione di un rapporto particolare, quello tra Blanchot e Mascolo appunto, ma sa al tempo stesso legarlo e aprirlo in un passaggio d’epoca che talvolta sfugge agli interpreti e lettori dell’autore de L’espace littéraire e L’entretien infini. Questo passaggio transita, in Blanchot, in una sorta di speranza senza speranza. Una speranza che sorge, sul disastro del Ventesimo secolo, solo dopo che ogni speranza è stata consumata e, come scrisse a Robert Antelme, «rende sacri gli ultimi bisogni umani». Non è un caso, osserva acutamente Moroncini, che questa speranza impura si leghi qui a fratture che sanno di forno crematorio, di fumo e cenere e di abisso. Qualcosa che instaura una rottura, una separazione, una perdita irrevocabile: Auschwitz, e oltre. Eppure, precisa Moroncini, se l’amicizia sa essere verità del disastro, ciò significa che «proprio il disastro, lungi dal risolversi nell’apologia del negativismo, chiede e reclama, come la cenere dei campi di sterminio, qualcuno o qualcosa che faccia di nuovo legame, che ristabilisca il rapporto, lasciando tuttavia aperta la ferita inferta al corpo del mondo». La vera amicizia, suggeriscono queste parole, è quella che sa assumere in sé il disastro. La vera amicizia è quella risonanza affettiva che sa dirsi addio.
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