Il diario da Gaza dell’avvocato della famiglia di Vittorio Arrigoni
Il diario da Gaza dell’avvocato della famiglia di Vittorio Arrigoni
Lunedì 19/9/2011
Da due settimane la nostra ambasciata del Cairo ha inoltrato al Ministero degli Esteri egiziano la mia richiesta di passare il valico di Rafah ed entrare a Gaza, ma ancora nessuna risposta.
Nella mattinata mi chiama Egidia, la madre di Vittorio, e mi dà la notizia: posso partire.
Sono emozionato e un po’ teso, alla sera a cena con la mia famiglia sono tutti un po’ preoccupati, del resto il viaggio presenta qualche insidia.
Martedì 20/9/2011
Arrivo al Cairo di sera, ad attendermi ci sono Germano Monti e Pino Marella, due attivisti italiani della «Freedom Flotilla» che sono arrivati da Roma, non hanno il permesso, ma sperano comunque di riuscire a passare; farò con loro il viaggio sino alla frontiera.
Mercoledì 21/9/2011
La distanza tra il Cairo e Rafah è di circa 400 km, il pezzo più ostico è fino al canale di Suez, per via del traffico. Dopo due ore passiamo il Salaam bridge, che attraversa il canale, e siamo nel Sinai. Ci attendono 200 km di deserto, un’autostrada dritta, rare auto e carretti. Pecore e cammelli sullo sfondo, ogni tanto portali monumentali che si aprono sul nulla. Decine di posti di blocco con autoblindo insabbiate e mitragliatrici puntate. Tre volte ci chiedono i documenti, una sola volta la procedura è un po’ difficoltosa, io esibisco il permesso in arabo e tutto fila liscio. Man mano che ci avviciniamo a El Arish, ultima cittadina prima della frontiera, la presenza militare è più marcata, sono preccupato perchè dobbiamo arrivare entro le 17, poi il valico chiude.
In prossimità del confine i controlli aumentano ancora, ogni 100 metri devo mostrare passaporto e permesso, percorro l’ultimo tratto a piedi, alla fine passo il cancello, passo la frontiera (Germano e Pino non riusciranno) e sono sulla terra di nessuno, un bus mi porta “di là”.
Un agente in tuta da combattimento nera, barba d’ordinanza, ritira tutti i passaporti, mi fanno sedere distante dagli altri viaggiatori, incontro Silvia, volontaria che è già stata qui 8 mesi e torna per scrivere un reportage. Vengono riconsegnati i passaporti, ma non a noi. Oggi è entrata in vigore una nuova legge, prevede che gli stranieri che entrano a Gaza debbano registrarsi e consegnare due fotografie in modo da essere controllati all’uscita.
Un agente della Security mi dice che mi ridaranno il passaporto tra un paio di giorni, mi porge un foglietto scritto in arabo, tento una flebile ed inutile protesta. Sono senza diritti, come tutti qui, del resto. Per fortuna arriva Anwar, del Palestinian Center for Human Rights, che riesce a farmi avere almeno una fotocopia del passaporto con un po’ di timbri, meglio di niente. La strada per arrivare a Gaza city (circa 30 km) è senza illuminazione, con posti di blocco ogni paio di chilometri, traffico rado di auto e carretti.
La sera ceno con Eyad Al Alami, capo della Legal Unit del PCHR ed altri avvocati, il ristorante sul mare è molto bello, affollato di bella gente, ottima l’orata, ma senza neppure un goccio di vino, come si fa? Parliamo soprattutto del processo che ci attende domani.
Giovedì 22/9/2011
Il processo inizia alle 10. Per arrivare alla Military Permanent Court costeggiamo la spiaggia ed il campo profughi “Beach Camp”, dove abita il presidente del governo di Gaza. L’aula è piccola, sporca , spoglia. Nessuna scritta nessun simbolo politico o religioso. Lo scranno del Tribunale è molto sopraelevato, per il pubblico ci sono delle panchette, le persone presenti sono una trentina, molti gli italiani. I banchi dell’accusa e della difesa sono uno di fronte all’altro, la cattedra della Corte è perpendicolare a loro; il banco dei testimoni è di fronte ai giudici, il teste volta le spalle ad avvocati e pubblico. Sulla destra la gabbia, nella quale vengono fatti entrare i quattro imputati. Un militare in tuta mimetica, barbuto come tutti, ricopre la funzione di usciere, è lui che batte con forza il palmo della mano sul banco dei testimoni e lancia un urlo, entra la Corte.
Il presidente della Corte avrà circa 30 anni, così come i giudici a latere, il PM e i suoi assistenti. Tutti vestono camicie militari senza alcun distintivo o grado. I quattro avvocati portano la toga sopra camicia e cravatta. Sono svogliati, uno di loro durante il processo (un processo per omicidio!!) si assopisce, il controesame del testimone e degli imputati è di pura facciata. Mi dicono che gli avvocati sono sconosciuti, con poca esperienza. L’udienza è brevissima, viene interrogato un agente che conferma i filmati con le confessioni degli imputati. Poi a turno gli imputati vengono interrogati dalla Corte.
Uno è accusato di aver aiutato gli assassini, gli altri tre di sequestro di persona e omicidio; questi ultimi si riconoscono nelle immagini che vengono mostrate solo a loro e non al pubblico ma affermano che le confessioni sono state estorte con vessazioni e minacce. Gli imputati appaiono spauriti e inoffensivi, sono vestiti con jeans e t-shirts, barba; non hanno l’aria dei terroristi e neppure degli imputati di terrorismo islamico che in Italia ho potuto osservare nei processi.
Viene reintrodotto l’agente, che nega ci siano state pressioni. Le dichiarazioni filmate sono state confermate anche in verbali scritti firmati dagli imputati. Nel frattempo l’usciere redarguisce aspramente quelli tra il pubblico che accavallano le gambe (mi dicono che qui sia una forma di maleducazione) e ne allontana uno (non capisco perché) che esce senza fare una piega. Di nuovo un colpo sul banco e un urlo da parte dell’usciere:, l’udienza è rinviata al 3 ottobre per ascoltare il medico legale che oggi non si è presentato. Alla fine di questa udienza vado ad incontrare il Procuratore militare, nel suo ufficio.
Gli pongo tre domande:
–Possiamo accedere agli atti delle indagini?
“L’inchiesta è militare, il processo è pubblico, venite al processo e saprete quel che c’è da sapere”
–Sono state fatte indagini sulla morte di due sospettati in un conflitto a fuoco con la polizia?
“Un’inchiesta della polizia ha appurato che tutte le regole sono state rispettate, per altre informazioni potete leggere quel che è stato scritto dalla stampa”
-La Procura chiederà la pena di morte per i colpevoli?
“La punizione prevista dalle nostre leggi in questo caso è la pena di morte”.
Sono assolutamente stranito.
Mi aspettavo una procedura da Corte militare, rapida, forse spietata, comunque finalizzata a cercare una ricostruzione dei fatti, se non la verità, che sia la base per una decisione.
Assisto ad un processo in cui i tempi sono dilatati senza ragione, la Procura imprecisa e svogliata, gli avvocati assenti, l’interesse pubblico nullo, la Corte inutilmente autoritaria.
Non è plausibile che in una situazione (anche territoriale) come questa il medico legale non si presenti per quello che è il primo atto di un processo per omicidio, cioè illustrare le cause della morte di una persona.
Il processo si basa sulle confessioni, ma nulla viene detto sulle indagini che hanno portato all’individuazione degli imputati, come si sia arrivati alla casa dove gli accusati si erano rifugiati, come si sia svolta l’azione della polizia, quale sia stato il ruolo dei due presunti assassini uccisi durante l’azione. E soprattuto: perchè proprio Vittorio è stato rapito e perchè è stato ucciso. Queste domande elementari non avranno spazio nel processo. La famiglia di Vittorio, come tutti noi, vuole, oltre alla punizione dei colpevoli, che venga chiarita la verità. Queste pretese legittime sono considerate con stupore, quasi con fastidio.
Il ragionamento che le autorità non fanno esplicitamente, ma che si può percepire è: ve ne abbiamo già uccisi due, altri tre forse li impiccheremo, non vi basta? Avete avuto la vostra vendetta, volete anche la verità?
Non ho dubbi che se avessimo avuto la possibilità di costituirci parte civile (nel codice militare introdotto da Hamas non è prevista la parte civile) ed avere quindi un ruolo nel processo i miei colleghi palestinesi avrebbero saputo smontare le falle e le omissioni dell’inchiesta, pur sapendo che la loro posizione già adesso è molto scomoda, per usare un eufemismo.
Prevedo un verdetto di colpevolezza, in quanto non appare realistico che la Corte smentisca le indagini segrete della security e della polizia e ritenga non utilizzabili le confessioni perchè estorte. Equivarrebbe a smentire le autorità, in un luogo dove il principio della divisione dei poteri non mi sembra abbia una rilevanza particolare. Nel pomeriggio incontro il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Gaza per una visita che non è solo di cortesia. La seravedo Daniela, volontaria italiana, ancora Silvia e una volontaria tedesca dell’IMS, con alcuni ragazzi palestinesi. Mi spiegano un po’ di cose, mi spiegano perchè sono a Gaza. Fatico a comprendere, difendo i diritti umani nei processi e anche nelle piazze, ma questa volta è diverso da ogni altra.
Venerdì 23/9/2011
Oggi un giro per la striscia con Daniela e un autista che abitualmente lavora per le ONG (lo si vede dalla prudenza nella guida).
Arriviamo a Beit Hanoun, villaggio a nord di Gaza City, dove questa estate è stato organizzato il “Vittorio Arrigoni Summer Camp”, mi raccontano cosa faceva Vittorio per i Palestinesi, in special modo per i bambini, i pescatori e gli agricoltori.
Di lì andiamo al confine, dopo i campi e gli orti c’è un chilometro di terra di nessuno e poi il muro, con telecamere, cecchini e sistemi di rilevamento ottico collegati a mitragliatrici che sparano automaticamente.
E’ qui che si sviluppa il software che poi verrà utilizzato nelle nostre città per la “lettura” in tempo reale dei video di sorveglianza. I contadini palestinesi sono le cavie su cui vengono testati i sistemi di controllo delle democrazie occidentali.
Per pranzo siamo attesi da una famiglia palestinese, nel villaggio di Al Faraheen, dall’altra parte della Striscia, verso il Sinai.
Jaber Aburjela è un agricoltore resistente, si ostina a coltivare la sua terra, vicinissima alla barriera di delimitazione, la sera va a dormire con la famiglia nel villaggio, è troppo pericoloso stare la notte a così poca distanza dal muro.
Spesso la IDF (Israeli Defense Force) fa incursioni con bulldozer e devasta le coltivazioni di ortaggi, a volte vengono sparati colpi di arma da fuoco, anche questa mattina è accaduto, come mi racconta Nathan, volontario di Chicago che è qui da otto mesi.
Nella piccola corte davanti alla casa colonica, quasi a sfidare l’esercito israeliano a poche centinaia di metri, una bandiera italiana e una palestinese.
Qui l’Italia è ricordata non per i soliti deprimenti motivi per cui in questi anni siamo noti all’estero, ma per Vittorio, il suo impegno, il suo amore per la gente, le sue battaglie di pace.
Con altri militanti dell’ISM Vittorio accompagnava i contadini nelle loro terre, con i megafoni gridavano agli Israeliani che volevano solo coltivare la loro terra; spesso la risposta erano gli spari, qualche mese fa un agricoltore di 65 anni è stato ucciso.
Nella corte c’è un monumento funebre per Vittorio, Jaber si commuove parlandone, anch’io sentendo il suo racconto.
A casa il pranzo è ottimo, l’atmosfera familiare; attorniati dalle figlie di Jaber, la serenità che mi circonda non riesce a farmi dimenticare le sofferenze di questa gente, stretta nella morsa dell’oppressione israeliana e dell’ottusità del potere religioso.
Sulla strada verso Gaza City la continua e ossessiva presenza di posti di blocco con miliziani che imbracciano il kalashnikov, dito sul grilletto, e i grandi manifesti con le foto dei martiri, pubblicità della morte alternata alla pubblicità commerciale.
Ma anche villaggi lindi, famigliole in gita su motocarri o carretti trainati da un asino e bambini, tanti bambini.
Tornato a Gaza City vengo contattato per conto delle famiglie degli imputati, presunti assassini di Vittorio. E’ un colloquio penoso, la vita e la morte delle persone non sono nelle nostre mani. A cena sono ancora con il mio collega palestinese, parliamo ovviamente del processo ma non solo. Anche lui è in prigione, come tutti gli altri abitanti di Gaza.
Sabato 24/9/2011
Dopo una notte insonne la mattina comincia il viaggio di ritorno. Anwar mi conduce a Rafah sulla vecchia volkswagen del PCHR, poco traffico, poca gente in giro, il mare è aspro e deserto.
Appena fuori dalla città aumentano i posti di blocco, sempre più folti e marziali man mano che ci avviciniamo al confine, qui c’è l’unico vero controllo, dopo un’attesa breve ma nervosa arriva una telefonata e passiamo.
Uscito dall’ultimo posto di blocco, oltre i reticolati, mi sento ingiustamente fuori pericolo. Ho il privilegio di potermene andare, tutti loro no.
Al posto di confine cortesi funzionari mi fanno attendere qualche minuto in un saloncino, poi vengo fatto salire su un’auto con due agenti in borghese, e a velocità sostenuta attraversiamo la terra di nessuno.
La sensazione è un passaggio al check point Charlie quando c’era il muro. Alla frontiera egiziana il normale e caotico affollamento, poi ancora il Sinai, nell’apparente fissità che puoi vedere da un’auto con l’aria condizionata. Due giorni dopo il mio passaggio un attentato ha fatto saltare una parte dell’oleodotto che porta gas in Israele al 30% del prezzo di mercato. Una settimana dopo il mio ritorno, a Gaza ci sono stati attacchi aerei istraeliani con morti e feriti.
Prima e durante questo viaggio non ho avuto, a parte la personale cortesia dei funzionari dell’ambasciata italiana del Cairo, alcun supporto da parte delle nostre autorità, che apertamente si disinteressano dell’omicidio di un connazionale all’estero.
Il nostro governo, a differenza di altri governi occidentali, considera Hamas un’organizzazione terroristica; questa non è una scusante per l’assenza ed il disinteresse, ma un sintomo della non comprensione della situazione.
Ogni violazione dei diritti dei palestinesi, ogni inutile vessazione, ritorsione o atto arbitrario non fa che allargare il solco che separa la nostra società dalle popolazioni che abitano o occupano o sono confinate in quelle terre e dà sostegno alle componenti più chiuse ed integraliste di quelle società. Ho incontrato persone di fiducia delle famiglie degli imputati, che hanno chiesto alla famiglia di Vittorio, tramite me, di impedire che i loro figli vengano condannati a morte.
La famiglia di Vittorio è ovviamente contraria alla pena di morte e non può accettare che ad una tragedia si assommi un’altra tragedia, per cui farà tutti i passi necessari in questa direzione.
La mia richiesta a queste persone, che non costituisce una contropartita in cambio della loro vita, è stata che essi dicano la verità.
Salvare la loro vita, spezzare la logica di violenza e di odio, sarà il più grande lascito di Vittorio, per continuare il suo impegno per cui a Gaza è ricordato con affetto e commozione.
* Avvocato della famiglia Arrigoni
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