ENEZIA Due ragazzi, figli di un polizotto, finirono in ospedale dopo un fermo. Gli agenti dicono di essere stati aggrediti
Parla la madre di Nicolò e Tommaso: «Voglio giustizia, ma temo un’archiviazione»
ENEZIA Due ragazzi, figli di un polizotto, finirono in ospedale dopo un fermo. Gli agenti dicono di essere stati aggrediti
Parla la madre di Nicolò e Tommaso: «Voglio giustizia, ma temo un’archiviazione»
«Quando sono arrivata l’ho visto in piedi, che sputava sangue, ho urlato ‘che siamo, in America?’, mi sembrava uno di quei film». La signora Simonetta Cordella ricorda tutto di quella notte del 2 aprile del 2009. Ricorda soprattutto la telefonata del figlio Nicolò, 25 anni: «Correte in questura, hanno ammazzato mio fratello». Sono momenti che nella memoria sembrano durare ore, in realtà tutto si è svolto in una trentina di minuti. Lei e suo marito corrono giù in strada, abitano a due passi dalla questura: «Sono un collega, vado alle volanti», dice il marito della signora esibendo il tesserino. Perché il padre dei due ragazzi, è Walter De Michiel, ispettore capo della polizia di frontiera di Venezia. Quando i coniugi De Michiel arrivano nel chiostro della questura di Santa Chiara, la situazione è surreale: Tommaso, 23 anni, ha il labbro spaccato, un occhio pieno di sangue, fatica a respirare, ed è circondato da almeno dieci poliziotti, racconta Simonetta. Ha bevuto, ma soprattutto è spaventato, alterna pianti a urla: «Non mi picchiate più adesso, non mi picchiate perché ci sono i miei genitori?». Intanto da dietro una porta sentono la voce dell’altro figlio: «Ho aperto la porta a vetri, l’ho visto seduto, ammanettato anche lui, ma a una sbarra. Ero una furia». In ospedale Tommaso avrà una prognosi di venticinque giorni, che diventeranno quaranta: ha due costole rotte, una tumefazione al torace, il labbro spaccato e lo scroto annerito, con tracce di sangue nell’urina. Lo tratteranno quella notte. A Nicolò è andata meglio: quattro giorni di prognosi.
«Tic, tac, tic, tac», scrive Simonetta sul gruppo Facebook nato due anni fa «Per non dimenticare». Vuol dire che il tempo sta per scadere. Le indagini sono aperte da due anni e mezzo, la famiglia De Michiel teme un’archiviazione. Forse anche per questo, l’altra sera a Padova, durante una serata sulle vittime di Stato, a cui partecipavano Patrizia Moretti e Lucia Uva – madre e sorella di due ragazzi uccisi dopo un fermo di polizia – si è alzata e ha raccontato questa storia, che il giornalista Filippo Vendemmiati ha rilanciato sul sito di Articolo21.
In città la vicenda dei fratelli De Michiel se la ricordano un po’ tutti. Lì per lì ha fatto scalpore, ma con il tempo le cose sembrano essere un po’ cambiate. La versione della polizia parla di un intervento per sedare una rissa, di due ragazzi molto agitati che hanno aggredito i poliziotti, tanto da ferirne cinque. E in quanto ai fratelli De Michiel in molti sussurrano che siano due teste calde. Eppure ci sono ancora un paio di cose da sottolineare in questa storia tutta da chiarire. Intanto c’è una testimone, una donna che ha assistito al fermo dei due fratelli. È stata ascoltata dall’avvocato della famiglia, ma non ancora dal pm che segue le indagini. La donna dice di aver visto i due ragazzi discutere, ma che certo non si trattava di una rissa. Quando sono arrivati i poliziotti – erano a bordo di una volante lagunare – si sono fermati per chiedergli i documenti, e subito hanno avuto un «confronto» con Tommaso, che era senza documenti. «Porta rispetto», gli dicevano i poliziotti. E lui: «Se non me lo porti tu, non te lo porto neanche io». Finisce che Tommaso viene portato sulla barca e lì si ribella: sono pugni e calci per ammanettarlo. La testimone era alla finestra di casa sua, e avrebbe gridato: «Ma che fate a quel ragazzo?». Un agente avrebbe risposto: «Ha qualcosa da dire, signora?». I due fratelli finiscono in questura, e lì comincerebbe la «rieducazione» del riottoso Tommaso. Il testimone è il fratello, che viene subito ammanettato alla sbarra: vede un poliziotto dare un calcio potentissimo a Tommaso sullo scroto. Il ragazzo cadere a terra e il poliziotto mettergli un piede sulla testa: «Hai finito di rompere i coglioni?». Nicolò urla di lasciarlo stare, e allora tocca a lui: un poliziotto gli dà due calci negli stinchi e esce chiudendo la porta. È a quel punto che Nicolò, cercando di raggiungere la maniglia della porta, si mette la mano in tasca alla ricerca di qualcosa che possa aiutarlo. Trova il cellulare e chiama i genitori.
E ancora: quella notte a Tommaso e Nicolò viene notificata solo una denuncia per ubriachezza manifesta. Solo in seguito Simonetta saprà che sia lei che i figli sono stati denunciati per resistenza a pubblico ufficiale, e Tommaso anche per lesioni. E poi: due giorni dopo il fatto, alcuni ragazzi organizzano una manifestazione. Tommaso prende il microfono, il padre lo vede in difficoltà e interviene. Dice che si dissocia dal comportamento di quei poliziotti, ma che la polizia è fatta di persone perbene. Per aver preso quel microfono, l’ispettore De Michiel è stato deferito alla Commissione disciplinare con l’accusa di manifestazione non autorizzata, oltraggio al corpo di polizia e pure omissione di atti di ufficio. Perché lui doveva sapere chi aveva organizzato la manifestazione, che poi si è chiusa con qualche «disordine» davanti alla questura, e avrebbe dovuto avvertire la polizia. All’inizio è stata condannato al licenziamento, poi commutato in una più «morbida» sospensione per sei mesi a mezzo stipendio.
Un’ultima cosa: Tommaso ha un processo in corso per lesioni, perché un militante di Forza Nuova lo ha riconosciuto tra le persone che lo hanno picchiato il 12 maggio 2009, anche se altri ragazzi presenti non lo ricordano. È il giorno dopo la scadenza della prognosi. Davvero un facinoroso, questo Tommaso: appena tornato al lavoro si butta subito in una rissa. Facinoroso o no, uscire con quaranta giorni di prognosi da una questura italiana merita qualche approfondimento.
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