GIORNATE DEL MUTO A Pordenone apre «La nuova Babilonia» del 1929
GIORNATE DEL MUTO A Pordenone apre «La nuova Babilonia» del 1929
PORDENONE. «Gli occhi dell’attore sono la melodia del cinema, le parole non sono che la ‘mano sinistra’ di un film…». Charles Laughton, citato da Nick Ray in Azione! (che Bompiani ripubblica 24 anni dopo Ubulibri, ma con preziosi dvd annessi) spiegava così a un giovane attore la differenza tra recitazione per il cinema e per il teatro. Occhi e sguardi da sottolineare fortemente, che magnetizzino subito lo spettatore, e lo catapultino dentro un conflitto, nelle immagini in movimento delle origini. A teatro, dopo la sesta fila, gli occhi chi li vede? Basta, per afferrare il concetto, pensare agli occhi che mai ridono – ma che volontà desiderante! – di Buster Keaton (qui abbiamo rivisto La casa elettrica del 1922 ovvero le delizie e i pericoli di una villa automatizzata, dal biliardo alla piscina, dalla libreria alla cucina, che il giardiniere laureato Keaton allestisce solo perché non resiste agli occhi languidi della figlia del rettore) o a quelli, che tutto prevedono e spesso sghignazzano, di Charlie Chaplin, poliziotto «socialista» in Easy street (1917) o evaso seduttore in The adventurer capace di prendere a calci nel sedere i celerini come tutto il mondo vorrebbe fare e vedere.
Ecco il perché delle sopracciglia iperfolte e minacciose di ogni cattivone di turno, ma dagli occhi da allocco, che avrà il perenne destino di essere sbeffeggiato da Charlot. Ecco ancora perché gli occhi «prensili» di Francesca Bertini, la prima diva del grande schermo, e tutto il suo corpo che ha lo sguardo e la flessuosità della maliarda, sono sottolineati da ombretti e fondotinta dark o da tendaggi e vestiti cosmeticamente scorretti o che attentano alle leggi di gravità (La serpe 1920, di Roberto Roberti).
E, confermando quella teoria – non c’è differenza di sostanza estetica né di ricchezza cromatica tra cinema muto e sonoro – anche Charles Laughton sarebbe felice in questi giorni al teatro Verdi di Pordenone. Qui infatti, da 30 anni esatti, per «Le Giornate del cinema muto», si danno appuntamento da tutto il mondo studiosi, fan, archivisti, musicisti specializzati, giovani critici, pubblico curioso, cineasti «muti» di oggi e star del «silent cinema» (fino all’8 ottobre). Come Jean Darling, la «femme fatale» di Our gang di Hal Roach (1922-1927). O il «premio Oscar» britannico Kevin Brownlow, regista studioso e restauratore che ieri ha raccontato il complesso lavoro per riportare all’antico splendore il capolavoro del muto, Napoléon di Abel Gance.
La crisi economica (che ha obbligato, qui e ovunque, a edizioni festivaliere più sobrie) e il crollo (colpa dell’on line) del mercato dvd non hanno comunque fermato scoperte del cinema «primitivo», restauri digitali e proposte editoriali, come il cofanetto Tesori del West, 1898-1938, 10 ore in 3 dischi dvd (costo 60 dollari), del quale Pordenone presenta alcuni pezzi rari come Mantrap (1926) di Victor Fleming con una Clara Bow «dinamitarda» della civetteria, manicure di Minneapolis che per noia sposa un «vero uomo» che se la porta nel nord-west, anche se lei continua, nella wilderness, a mettere a soqquadro la rispettabilità puritana dei paesaggi umani e montani incontaminati seducendo, a colpi di «it girl» («quel che voglio è la mia libertà, guai a metterla in discussione con sciocchezze come il matrimonio») avvocati misogini in vacanza o irreprensibili guardie rosse canadesi. Faceva così paura ai fascisti di ogni dottrina politica Clara Bow che di lei e delle sue omologhe sovietiche (che non raramente convivevano allegramente con due uomini) nessuno sa più niente da decenni. Svegliamoci, indignati!, e imponiamo questi film almeno su Raimovie.
Quest’anno siamo venuti qui soprattutto per i film appena ritrovati (The soldier’s courtship del 1896, inglese, tra i primi film di finzione della storia; The white shadow di Graham Cutts, anche lui inglese, che vede impegnato in zona creativa il 24enne Hitchcock), per vedere il primissimo e sconosciuto Walt Disney; i pionieri dell’animazione giapponese, i bisnonni, insomma, di Miyazaki. Per godersi i film ungheresi di Michael Curtiz, il regista che a Hollywood fece Casablanca (e anche le sue opere danesi e tedesche, come un I dieci comandamenti del 1924, dove già si evince la fascinazione dell’allora Michael Kertesz per un classicismo narrativo dal montaggio invisibile ma l’ossessione perversa per i costumi bizzarri dei suoi eroi, dei faraoni filosemiti qui, come di Robin Hood ammazzacattivi in Califonia). Inoltre per i documentari sulla corsa al Polo di un secolo fa, per i primi georgiani, gli antenati dal particolare senso dell’umorismo di Ioseliani e Danelja, e per un omaggio a Trauberg e Kozincev (e al loro attore, poi regista, Sergey Gerassimov). Nemici del teatro borghese, del realismo superficiale, delle soluzioni esteriori e accomodanti, i fondatori del gruppo «Feks» (Grigori Kozincev, Leonid Trauberg, come anche Sergei Jutkevic) avevano redatto un manifesto (in Eccentrismo, 1922) che sottolinea l’importanza dell’«elettrificazione» e dell’«americanizzazione» del teatro, il ruolo centrale del circo, dell’arte del clown, del music-hall, del cabaret. Il gruppo passa al cinema nel 1923 e coinvolge Dimitri Shostakovich e le sue armonie costruttiviste e già postmoderno (la musica fa da interferenza, contrasto, dolcifica l’orrore, rende tetro lo zuccheroso) nel primo film a cui partecipa, sulla Comune di Parigi, La Nuova Babilonia (1929), che ha inaugurato Pordenone 30 al suono dell’Internazionale. Un soldato semi disertore di origini contadine, dopo la rotta di Sedan del 1870, capita tra i proletari di Parigi in procinto di insorgere e di fare la «Comune». Si innamora di Louise (Michel?), comunarda indomita, ma la sua voglia «di pace» lo riporta tra i soldati che la borghesia francese, serva dei prussiani, utilizza per distruggere il primo governo «dal basso» della storia. Mentre lavandaie e lattaie che, sottratti i cannoni ai borghesi, conquistano con la lotta i diritti basilari e ritrovano la voglia di lavorare, per tutti e non per i padroni, il loro «can-can sociale» viene azzittito dalla più feroce delle repressioni. Il soldato scaverà la fossa proprio per la donna che ama (naturalmente fucilata). Senza rendersene conto, da perfetto membro osceno della «maggioranza silenziosa» che si compiace della sua alienazione. In una scena tagliata del finale (amatissimo da Debord) il soldato verrà perfino immortalato in primissimo piano, come eroe, da un fotografo. A simbolo imperituro della banalità criminale di chi ha una coscienza ma neanche se ne accorge.
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