Un corteo tanto imponente quanto pacifico di giovani “indignati” ha dovuto ripiegare in parte le sue bandiere messo sulle difensive dai black bloc, giovani che non credendo nella rivendicazione hanno fatto della violenza il loro strumento per esprimersi. Che la violenza possa avere un effetto catartico è risaputo.
Un corteo tanto imponente quanto pacifico di giovani “indignati” ha dovuto ripiegare in parte le sue bandiere messo sulle difensive dai black bloc, giovani che non credendo nella rivendicazione hanno fatto della violenza il loro strumento per esprimersi. Che la violenza possa avere un effetto catartico è risaputo. Ma questo richiede circostanze eccezionali: non capita ogni giorno che cada la Bastiglia o il Palazzo d’ Inverno o, per dirla in modo diverso, una testa di re. Più spesso la violenza è una scarica emotiva senza via d’uscita, crea un sollievo temporaneo e aumenta l’impasse. Non tanto tempo fa alcuni giovani greci dal volto coperto hanno dato fuoco a una banca di Atene uccidendo tre impiegati (costretti a stare nel luogo di lavoro in un momento di grande tensione da padroni irresponsabili). Tra di loro una giovane donna incinta che, non volendo essere licenziata, ha scelto, senza saperlo, di morire. Una tragedia immane, passata nel giro di poche settimane nel silenzio, sepolta, come capita spesso in questi casi, nell’oblio cui condanna il voltare distrattamente pagina.
Non si può pensare, come è facile fare, che i giovani uccisori fossero mostri né che volessero veramente uccidere. Hanno agito violentemente la loro rabbia e ci “è scappato il morto”, cosa che in circostanze meno sfortunate sarebbe anche potuto non succedere. Questo tragico “incidente” ci colpisce per la sua apparente fatalità che l’ha lasciato privo di significato emarginandolo rapidamente nella sfera del lutto privato. La violenza non elaborata a livello collettivo (tra chi pensa che la violenza giovanile è un male necessario e il benpensante che identifica la ribellione con la distruttività) pesa non poco nella situazione greca attuale dove la confusione tra la rabbia giusta dei giovani disoccupati e dei lavoratori e il ribellismo atavico di alcune corporazioni tende a vanificare il riscatto di un popolo (tradito dalla sua classe dirigente).
Il presidente Napolitano dice che la violenza è inammissibile. Lo può diventare in effetti se la rabbia diventa ammissibile. La rabbia nella sua forma nobile, l’indignazione, o nelle sue forme più giovanili e irruenti, è un diritto civile: tra tutte le emozioni è la più chiaroveggente, consente di distinguere meglio tra tra ciò che siamo e ciò che non siamo, tra ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo, tra mediazione possibile e mediazione impossibile. La legittimazione della rabbia rende vere e solide le relazioni, fa del rispetto per gli altri un sentimento sincero, libero. La cosa veramente inammissibile è una società che trasforma la rabbia dei cittadini in sentimento di impotenza, svilendo le loro rivendicazioni.
La forma più pericolosa di violenza non è quella dei giovani che diventano violenti per mantenersi vivi, ma la violenza diffusa e non esplicita, serpeggiante, un sotterraneo mortifero rigetto dei legami che nasce dall’implosione della rabbia. Il fatto che il 44% degli italiani nutra sentimenti ostili nei confronti degli ebrei (indagine parlamentare recente) è un indicatore molto allarmante di un fenomeno che le leggi speciali per punire i violenti ignorano.
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