La lezione di Capitini ai tempi dei black bloc

Mentre si discute di manifestazioni violente, di black bloc e della presenza dei cattolici in politica, sarebbe utile tornare a leggere Aldo Capitini, il maggior pensatore italiano della nonviolenza, poeta, filosofo, educatore, libero religioso, idealista pratico alla Gandhi, che non si vergognava di associare la politica all’etica: a proposito di Pannella e di Bandinelli diceva di essere «alquanto critico perché sono “politici” e forse senza gli scrupoli che per me contano».

Mentre si discute di manifestazioni violente, di black bloc e della presenza dei cattolici in politica, sarebbe utile tornare a leggere Aldo Capitini, il maggior pensatore italiano della nonviolenza, poeta, filosofo, educatore, libero religioso, idealista pratico alla Gandhi, che non si vergognava di associare la politica all’etica: a proposito di Pannella e di Bandinelli diceva di essere «alquanto critico perché sono “politici” e forse senza gli scrupoli che per me contano». Morto nel 1968 e (troppo) poco ricordato anche in questo cinquantesimo anniversario della Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli da lui creata nel 1961, Capitini credeva in una visione religioso-sociale non da mistico ma da razionalista.

La sua «disobbedienza civile» e la sua «non collaborazione» erano tutto il contrario del «solo violenza aiuta / dove violenza regna» di brechtiana memoria. Lo si può leggere, Capitini, nel sito a lui dedicato, dove si capisce bene che valore abbiano i suoi concetti di «tramutazione» e di «omnicrazia». Gianfranco Contini, che lo conobbe a Perugia già negli anni Trenta, lo definiva «uno di quei temperamenti risorgimentali più atti a elaborare la resistenza alla tirannia che ad amministrare il grigio quotidiano», una natura «più fatta per la penombra carbonara che per la luce elettrica della politica attiva». Il filologo gli attribuì, tra l’altro, il merito di aver fatto della Normale di Pisa il centro della resistenza intellettuale e di aver spogliato Francesco d’Assisi dell’«estetismo imbecille» voluto da «bigotti e dilettanti» sin dal Trecento: «San Francesco — scrive Capitini —, mentre i cattolici facevano le crociate e scannavano i saraceni tanto che il sangue arrivava alle ginocchia, andava a parlare di nonviolenza ai saraceni».

Sono frasi tratte da un libretto appena uscito per le Edizioni dell’Asino, dove vengono raccolte molte lettere che Capitini mandò ai suoi amici dal ’47 in poi. Tra i suoi amici ci sono Guido Calogero, Goffredo Fofi, Walter Binni, Danilo Dolci, Norberto Bobbio. Capitini era fautore di una discussione e di una educazione civica dal basso, una specie di democrazia diretta che riuscisse a integrare la democrazia parlamentare. Il suo motto era «spendere la propria vita giorno per giorno», preparando la pace (e una società più giusta) durante la pace, cosa che il suo amico Carlo Levi trovava prosaica. L’obiettivo era «creare figli, costituire una grande cassa di risonanza, di solidarietà e di azione, anche per utilizzare atti generosi di pochi». Non per questo si faceva grandi illusioni. Al punto che avvertiva realisticamente che «questa cassa di risonanza, o unione di animi» non c’era, anche perché molti suoi amici pensavano alle loro carriere e «a mettersi nelle cricche protettive». Il visionario aveva capito benissimo come vanno le cose del mondo: Capitini sarebbe un maestro ideale degli attuali indignati pacifici privi di leader. Probabilmente oggi sarebbe schierato con loro. E contro molti dei suoi amici di un tempo.

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