Il potere nato sul click del mouse

WIKILEAKS
In un libro di Nutrimenti l’avvincente cronistoria della battaglia di Julian Assange contro il segreto di stato. Dalle prime denunce contro il potere dispotico delle banche ai cablogates, i difficili rapporti con i media di un gruppo di attivisti che è riuscito a modificare la geografia politica del web

WIKILEAKS
In un libro di Nutrimenti l’avvincente cronistoria della battaglia di Julian Assange contro il segreto di stato. Dalle prime denunce contro il potere dispotico delle banche ai cablogates, i difficili rapporti con i media di un gruppo di attivisti che è riuscito a modificare la geografia politica del web

 Le gesta di Julian Assange hanno fatto perdere il sonno a molti ministri, banchieri e a altrettanto numerosi esponenti politici. Le azioni di Wikileaks hanno infatti cambiato la geografia e i rapporti di potere nella Rete, determinando movimenti d’opinione pubblica e una guerriglia mediatica da parte di diffusi gruppi hacker. Ma soprattutto hanno nuovamente posto al centro della discussione pubblica il nodo della libertà di informazione, del ruolo del segreto di stato. E molti hanno cominciato a discutere sul fatto se la democrazia reale ha nella libera circolazione della conoscenza un potente alleato o un temibile nemico. Temi e argomenti che lo stesso Assange ha ripetutamente affrontato nei suoi scritti e, soprattutto, nelle tante interviste concesse ai media mainstream a partire dalla convinzione che la libera circolazione delle informazioni e il rifiuto del segreto di stato, e industriale, possono aiutare i singoli a formarsi un punto di vista non manipolato. Posizione che Assange ha sempre difeso con tenacia e caparbietà anche quando gli è stato fatto notare che alcuni dei documenti resi pubblici da Wikileaks potevano mettere a repentaglio la vita di alcuni attivisti dei diritti umani o di uomini e donne «innocenti».

Un hacker in erba
Un’intransigenza nutrita comunque da una buona dose di pragmatismo, visto che, dopo una fase iniziale, Wikileaks ha diffuso documenti «segreti» dopo aver verificato che il loro contenuto non metteva in pericolo nessuna vita. Dunque radicalità dei principii e pragmatismo nell’azione. Ma quello che costituisce ancora un problema è proprio la figura di Assange, un uomo dipinto come un idealista, oppure come un autoritario accentratore che non tollera nessun dissenso; un nemico del capitalismo, oppure un fiero difensore del libero mercato contro i monopolisti dell’informazione; un liberale che si batte contro l’ingerenza dello stato nella vita dei singoli, oppure un hacker radicale che ha capito le potenzialità sovversive della rete in quanto medium universale.
Il volume che la casa editrice Nutrimenti ha mandato alle stampe – Wikileaks. La battaglia di Julian Assange contro il segreto di Stato (pp. 391, euro 19,50) – va però considerato come un contributo per capire il rapporto tra Wikileaks e i media e non come una biografia non autorizzata del suo fondatore. Va subito detto che gli autori – David Leigh e Luke Harding – sono giornalisti del «Guardian», cioè il giornale che più di altri ha collaborato con Assange. E che il loro rapporto è terminato con una rottura, dopo che Assange ha accusato il «Guardian» di aver diffuso una password per accedere a un sito gestito da Wikileaks, mettendo così in pericolo i criteri di sicurezza dei materiali e creando, potenzialmente, seri problemi ad Assange, visto che in quel periodo c’erano sguinzagliati in giro uomini dei servizi segreti statunitensi e non solo che erano a caccia proprio di Assange. Accusa che il giornale inglese ha sempre considerato eccessiva, sostenendo che quel sito era dismesso da tempo.
I capitoli dedicati all’infanzia, l’adolescenza e l’ingresso di Assange nella vita adulta occupano ben poco spazio rispetto invece la descrizione di come il gruppo si è organizzato e del perché ad un certo punto ha deciso di «collaborare», in un relazione paritaria, con i «media mainstream», da sempre guardati con sospetto, perché considerati strumenti al servizio del potere costituito. E tuttavia sono capitoli che a capire il contesto sociale e culturale in cui è cresciuto Assange.
La controcultura degli anni Sessanta è l’humus politico della madre, che entra ben presto a far parte di gruppi ecologisti radicali australiani, spostandosi da una regione all’altra del paese a seconda dell’agenda politica del movimento verde. Assange è presto segnalato come un ragazzo «difficile», insofferente all’autorità ma bravissimo a programmare computer . Siamo arrivati quasi alla sua maggiore età. Il suo nickname, Mendax, diviene ben presto noto non solo tra la selettiva e tuttavia agguerrita «legione» di hacker australiani, ma anche tra le autorità di polizia.
Dentro il Chaos Computer Club
La libertà di circolazione e di accesso alle informazioni è il tema che attira la sua attenzione. Da qui al rifiuto del segreto di stato il passo è talmente breve che quando Assange lascia l’Australia ha già deciso che occorre formare un gruppo che abbia come obiettivo la diffusione di materili e documenti qualificati come «riservati» o «segreti». Frequenta alcuni attivisti del movimento no-global e sarà a Nairobi durante il World Social Forum nel 2007. Non è più il ragazzo che legge i testi sulla disobbedienza civile o i classici latini. Si sente un attivista che disprezza «i rivoluzionari della domenica» occidentali. Vuol passare all’azione e dunque va a Berlino, capitale negli anni Ottanta della cultura hacker europea. Partecipa alle riunione del Chaos Computer Club e incontra alcune attivisti e hacker che contribuiranno non poco alla creazione di Wikileaks. Il suo progetto – un gruppo transnazionale contro il segreto di stato e industriale – è salutato con entusiasmo.
Wikileaks nasce in questo contesto esistenziale e culturale. Ma sia Assange che i suoi primi compagni di strada ritengono che la Rete è sia ormai un medium «universale». Sono finiti i tempi della mailing list, dei portali e dei siti alternativi. È ormai il tempo dei social media e dei social network.
Nel libro di David Leigh e Luke Harding questo background culturale e esistenziale è stigmatizzato come un idealismo romantico che non ha però la forza di tradursi in azione fino a quando il gruppo non entra in contatto con attivisti dei diritti umani – la pubblicazione dei materiali sulla corruzione in Kenya nasce da questo incontro – e con uomini e donne interni al sistema di potere. È il caso del soldato Bradley Manning, che entra in possesso di una quantità sterminata di materiale «riservato», compreso il video che documenta come l’esercito statunitense abbia ucciso dei reporter della Reuters in Iraq.
Bradley dopo molte esitazioni decide di contattare Wikileaks per consegnare il materiale trafugato. Che sarà pubblicato provocando uno scandalo internazionale. Bradley sarà «venduto» alla Fbi da Lamo, un hacker americano. Ma Wikileaks ha ormai occupato il centro della scena. Da allora sono noti i casi di divulgazione dei materiali riservati. Il libro si sofferma molto sui rapporti, tesi, tra Assange e i giornalisti. La vicenda dell’accordo tra Assange e il «Guardian», «New York Time», «Le Monde» e «Der Spiegel» è raccontato è guardata come l’incontro del giornalismo investigativo e un gruppo molto capace tecnicamente, ma che vive sulle nuvole. Ma Wikileaks diventa potente solo quando, scrivono i due autori, i giornalisti mettono a disposizione il loro mestiere a un gruppo che non sa bene come gestire le informazioni in suo possesso. Non mancano battute ironiche verso Assange e Wikileaks – ossessivo il primo, un milieu di anticapitalismo romantico e virtuosismo tecnico gli altri – e poco più che nulla viene detto delle accuse rivolte ad Assange dalla magistratura svedese di stupro. Accuse sempre respinte da Assange, che vi vede una manovra americana per demolire la sua credibilità.
Una merce resa scarsa
Per Leigh e Harding, la potenza di Wikileaks si è dunque manifestata quando sono entrati in campo i giornalisti, cioè quelle figure professionali che sanno «impacchettare» le informazioni. È certo che l’accordo tra Wikileks e i media mainstream ha aiutato ad amplificare la portata delle rivelazioni. Ma non è detto che questo non sarebbe accaduto, magari in tempi più lunghi. Wikileaks è però riuscita a creare una crepa nel firewall creato dagli stati nazionali e di alcune banche e impresi rispetto i propri segreti. Ma per molti aspetti, molto del materiale diffuso non era certo un grande segreto, come dimostrano i cablogates delle ambasciate americane al dipartimento di stato. Di fatto però Wikileaks ha modificato la geografia politica della rete e reso evidente che sul controllo dell’informazione sono in atto strategie molto diversificate. E che non è detto che la partita finirà con un risultato favorevole ai governi e alle imprese.
Gli stati nazionali, senza nessuna distinzione tra quelli democratici e quelli autoritari, cercano sempre di limitare la sua circolazione, ma per il momento non riescono ad esercitare un controllo totale. Le imprese, dal canto loro, vogliono esercitare un controllo nella diffusione dell’informazione in quanto merce che sfugge alla «legge» della scarsità. Il controllo su di essa significa dunque creare una «scarsità» artificiale per venderla a prezzi maggiorati. Ma quello che nessuno poteva prevedere è la scesa in campo di gruppi agguerriti di hacker – Anonymous ed altri – che hanno messo in difficoltà imprese e stati nazionali.
Uno studioso attento della rete come Evgeny Morozov – a presto sarà nelle librerie italiane la traduzione del suo volume sulla Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom – sostiene che Wikilesks diventerà un intermediario dell’industria dei dati, mettendo così a nudo il fatto che la libertà di espressione è ormai diventata una merce come tante altre. Conclusione affrettata, perché è proprio il conflitto sul controllo dell’informazione che ha visto la presenza di un ospite inattese. Cioè quei gruppi hacker che non hanno mai nascosto la loro internità nei movimenti sociali inglesi e più recentemente statunitensi come «Occupy Wall Street». Sono gruppi che hanno costruito un ponte tra la strada – terreno privilegiato dai movimenti sociali – e la rete – luogo in cui le informazioni e la conoscenza hanno il loro vettore per essere diffuse – e che vedono nella libera condivisione dell’informazione non la soluzione per i mali di una democrazia rappresentativa in fase terminale, ma il primo tassello di una democrazia radicale che rompe il monopolio della decisione politica degli stati, costruendo proprie istituzioni dentro e fuori la Rete.

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