OLTRE FOUCAULT «Potere e giudizio», un saggio sulla giustiza di Gianvito Brindisi
OLTRE FOUCAULT «Potere e giudizio», un saggio sulla giustiza di Gianvito Brindisi
La corruzione, in Italia, da qualche tempo, ha cambiato nome: si chiama «vita privata». A sua volta, la legge, che di perseguire i corrotti ha il dovere, è diventata «intromissione nella vita privata». Sintesi suprema del tutto è che il corrotto è privato cittadino e il privato cittadino è corrotto. E proviamo a pensare se ciò non ha ragione d’essere, con buona approssimazione e a livelli diversi, per l’élite dominante e dirigente del nostro paese: industria, finanza, università, editoria, spettacolo. Tutti coloro che, in Italia, riflettono sulla giustizia, teorici e filosofi, o la praticano, i giudici, convergono unanimamante su un punto: il campo giuridico italiano e la sua prassi subiscono, da almeno vent’anni, da Mani Pulite, il peso monopolistico e paralizzante della lotta contro la corruzione. Non potrebbe essere altrimenti, vista un’élite come la nostra, così flagrantemente e strutturalmente incapace di rivestire con probità il proprio ruolo istituzionale. E la sofferenza che ne deriva per il dibattito democratico sulla giustizia e sulla sua amministrazione è immensa.
La cultura giuridica italiana è in grave asfissia perché il dialogo interno alla magistratura è congelato; il confronto con le istituzioni, soprattutto con queste istituzioni, impossibile; mentre il contatto con la società civile che Magistratura Democratica aveva pur tentato di avviare, è stato bloccato dalle congiunture storiche (il terrorismo, negli anni Settanta; il malaffare generalizzato e colluso con la mafia, oggi) e, di fatto, non è mai cominciato. Chi sono io, giudice? Chi sono io, giudicato? Qual è l’orizzonte di razionalità in cui giudice e giudicato operano? Quali sono le condizioni di possibilità in cui si dice e si stabilisce la verità? Sono domande che nel nostro paese non hanno ancora potuto essere affrontate insieme alle istituzioni e con l’attenzione della pubblica opinione.
Un libro recente di Gianvito Brindisi porta alla luce l’intera questione: Potere e giudizio. Giurisdizione e veridizione nella genealogia di Michel Foucault (Edizioni Scientifiche, pp. 420, euro 28). Si tratta d’un libro di notevole impegno teorico e alta scrittura, che viene da uno dei laboratori di pensiero più vivi e all’avanguardia del paese, il Centro di Ricerca sulle Istituzioni Europee dell’Università Suor Orsola Benincasa. Il lavoro di Brindisi si legge su un duplice binario: quello scientifico e quello politico. Il suo oggetto scientifico è una attentissima rilettura del Foucault filosofo del campo giuridico. Il livello politico è poi implicitamente iscritto nell’oggetto scientifico: se il dialogo con Foucault risulta ancora imprescindibile, oggi, per un teorico, italiano in particolare, è perché non è si è mai aperta in Italia una partita per la critica genealogica della giustizia. Quali saperi e quali poteri parlano e agiscono dentro la scena giudiziaria? In che modo l’extragiuridico – la religione, l’etica, l’economia, il politico – incide sul giuridico? Quali sono le tecniche di produzione della verità?
Gli interrogativi della genealogia foucaultiana non solo rimangono del tutto attuali in tutta l’area dell’Occidente globalizzato e postcostituzionale, ma risultano particolarmente urgenti in Italia, dove la crisi della giustizia riflette uno shock etico comunitario e un ritardo devastante dei processi di consapevolezza collettivi. A fronte di una tradizione nazionale ancora legata al realismo giuridico e alle sue trasformazioni più recenti – l’ermeneutica, le teorie dell’interpretazione e dell’argomentazione -, Brindisi intende squadernare completamente il campo del giudizio e riunirne le pagine in un nuovo libro, per così dire, che non è più quello della Legge e della Giustizia, ma quello delle storicità: le formazioni storiche della morale, dei poteri di assoggettamento e controllo, dei saperi funzionali al dominio. Applicata al «sistema Italia», che, da tutte le parti e trasversalmente – dalla sede di partito alla cattedra universitaria, dalla dirigenza industriale alla leadership sindacale – ha sempre resistito a definire quadri verificabili delle responsabilità politiche, etiche e civili, la proposta di questo libro è assolutamente esplosiva.
Nel dare corso alla sua proposta d’indagine, Brindisi riallinea su un unico asse tutte le prospettive della scrittura foucaultiana che possano contribuire ad individuare il giuridico per via non giuridica: di fatto, si tratta, metodologicamente, di rileggere il «macrotesto Foucault», per individuarvi una storia del Giudizio mai sistematicamente scritta e tuttavia prepotentemente presente. Si tratta, per altro, d’una direzione di ricerca in controtendenza su suolo italiano, perché il Foucault critico della giudiziabilità è stato da noi sovrapposto, in particolare nell’ultimo decennio, a quello della cosiddetta governamentalità, con un effetto deformante non da poco. Perché in Foucault, di fatto, il giudizio e il governo vengono fatalmente a confliggere sulla questione della verità: la verità è un oggetto che il governo mal tollera e tende a obliterare. È uno tra i meriti importanti di questo libro l’averlo visto con molta chiarezza e l’averlo quindi esposto con filologica precisione di lettura. Per altro verso, come mostra la parte finale dell’analisi di Brindisi, dedicata al nesso diritto-etica nella realtà contemporanea, è a partire dalla decostruzione del giudizio, non del governo, che risulta possibile recuperare la dimensione libertaria della verità.
Il centro geometrico del libro è invece occupato della lettura foucaultiana dell’Edipo re. Si tratta di una scelta altrettanto meditata quanto deliberatamente eccentrica. Sfidando Freud sulla scena archetipica del processo di soggettivazione e rimozione, Foucault intepreta la macchina drammaturgica dell’Edipo re come grande artificio che iscrive la verità giudicabile nel limite strutturale d’una parzialità sistemica. È come dire, in altri termini, che le responsabilità, nel momento in cui vengono proferite, diventano immediatamente inservibili per il bene comune: la situazione che stiamo esattamente vivendo noi ora nel nostro paese, in questa terra arcaica di «giudizi inutili». Il percorso foucaultiano di Brinsidi si chiude sulla grande questione del rapporto tra giudizio e diritti e si concentra, specificamente, sul rischio della giudiziabilità dei diritti.
La corruzione della nostra élite – ma possiamo ancora chiamarla così? – ci sta costando non solo in termini fiscali e finanziari, ma anche in termini – è proprio il caso di usare questa parola – biopolitici: mentre tutti siamo intossicati dal diluvio escrementizio che piove dai palazzi del potere e dai templi del sapere, senza che quasi ce ne accorgiamo, la differenza di orientamento sessuale e affettivo, la differenza psichica, il diritto all’autodeterminazione biologica, sono sempre più materia giudicabile, cioè materia viva prelevata dalla nostra carne e digerita da una bulimia giuridica incontrollata, nella più totale assenza di dibattito pubblico, con la complicità silente o urlata della politica e tra le pressioni del potere vaticano. Siamo di fatto a un giro di vite sulle libertà fondamentali della persona.
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