Sui sentieri impervi della violenza politica
Dagli attentati dell’11 settembre 2001 in poi, le potenze occidentali hanno elevato la guerra al «terrorismo» a priorità strategica senza sapere davvero cosa comporti questa parola. Cosa accomuna i gruppi radicali nati negli anni à70, le reti di al Qaeda e le lotte armate per l’indipendenza? Le testimonianze dei militanti contribuiscono a far luce sulle logiche della violenza politica.
Sui sentieri impervi della violenza politica
Dagli attentati dell’11 settembre 2001 in poi, le potenze occidentali hanno elevato la guerra al «terrorismo» a priorità strategica senza sapere davvero cosa comporti questa parola. Cosa accomuna i gruppi radicali nati negli anni à70, le reti di al Qaeda e le lotte armate per l’indipendenza? Le testimonianze dei militanti contribuiscono a far luce sulle logiche della violenza politica.
«Oggi, dietro ogni morte, vedo una persona, un individuo. Tutte queste vittime, anche indirette, le porto dentro di me. Perché faccio parte di coloro che hanno proposto, deciso e pronunciato le sentenze. La mia responsabilità è giuridica, politica e morale. Me le assumo tutte e tre.» Si conclude così La prima linea, film ispirato all’autobiografia di Sergio Segio, tra i fondatori dell’omonima organizzazione impegnata nella lotta armata alla fine degli anni ’70 in Italia (1). Scarcerato nel 2004, dopo una pena di 22 anni, Segio aggiunge: «Abbiamo creduto di avere ragione, quando invece avevamo torto. Ma a quel tempo non lo sapevamo.» [Nota redazione Miccia Corta: è utile specificare che Segio ha contestato la fedeltà del film al suo libro e al suo pensiero]
Le vicende della Rote Armee Fraktion (Raf) tedesca, di Action Directe (Ad) francese, di Ilich Ramírez Sánchez – più noto con il nome di «Carlos» – o dell’Armata rossa giapponese, sono anch’esse rappresentate al cinema (2). Le case editrici pubblicano o traducono le Memorie di ex militanti, e persino la stampa più generalista, non disdegna più di intervistarli sul loro passato. Un po’ come se i lunghi anni di prigionia e l’opinione, a volte critica, che essi esprimono oggi sulla loro esperienza autorizzassero delle forme di empatia un tempo assolutamente condannate. Ma un’inclinazione così indulgente non è condivisa da tutti. In Italia, il rifiuto opposto dal Brasile all’estradizione di Cesare Battisti, ex membro dei Proletari armati per il comunismo (Pac), ha sollevato un’ondata di proteste. In Francia, la revoca del regime di semilibertà per Jean-Marc Rouillan, tra i fondatori di Ad, dopo un’intervista nel 2008, o le dichiarazioni di ministri degli interni – e consulenti scelti – preoccupati di un «ritorno dell’ultrasinistra» mostrano come le ferite non siano ancora del tutto rimarginate. Tale rinnovato interesse resta tuttavia modesto di fronte al proliferare di scritti sul «terrorismo islamico», che assorbe ormai il grosso di ogni discussione sulla violenza politica. Nel 2007, Andrew Silke, direttore del corso di Studi sul terrorismo alla University of East London, mostrava come, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, sull’argomento venisse pubblicato, nel mondo anglosassone, un nuovo libro ogni sei ore (3). Inchieste giornalistiche, testimonianze più o meno verosimili di estremisti islamici «pentiti» o di ex agenti dei servizi segreti si aggiungono a centinaia di articoli e saggi accademici. Il «nuovo terrorismo» delineato, nelle sue caratteristiche, dalla maggior parte di questi lavori sarebbe talmente diverso dalle forme precedenti di violenza politica che nessuno – o quasi – proverebbe a metterne a confronto le dinamiche. Una improbabile «terroristologia» Ma è una valanga di carta che risulta insoddisfacente. Silke fa notare che l’80% delle ricerche si fonda unicamente su dei materiali di seconda mano (libri, riviste, giornali) e solamente l’1% si basa su interviste, mentre sui jihadisti non è stata condotta nessuna indagine sistematica (4). Una simile distanza dall’esperienza diretta porta a un eccessivo lavoro di interpretazione dei loro discorsi pubblici, come se le ragioni della loro militanza potessero essere sviluppate soltanto a partire da quanto rivendicato dai suoi protagonisti. Tuttavia, il senso di un conflitto (di rivendicazione nazionale, religiosa, di classe, ecc.) si manifesta spesso retrospettivamente, ovvero quando chi ne è stato protagonista ha raggiunto una posizione di autorità tale da esprimere il punto di vista consacrato come quello legittimo in merito. Per esempio, la componente religiosa della guerra di liberazione algerina è stata ampiamente sfumata dopo l’indipendenza, sebbene i servizi di intelligence francesi l’avessero considerata un elemento essenziale mentre il conflitto era ancora in corso (5).
A parte qualche esperto delle società islamiche, la maggior parte dei ricercatori studia l’estremismo islamico come un fenomeno a sé stante, isolando questo da altri settori delle scienze sociali. È come se questi ricercatori perpetuassero così, sotto una nuova veste, una «terroristologia» simile alla «sovietologia» del passato, che pretendeva di spiegare l’Unione sovietica a partire dai discorsi dei dirigenti del Partito comunista e dall’interpretazione della loro ascesa e retrocessione. E ciò non può essere giustificato solamente in base alla difficoltà dell’indagine. Il tipo di analisi scelto deve essere messo in relazione con l’appartenenza sociale di chi la realizza, con le con le posizioni che occupa, al confine tra il mondo accademico, i servizi segreti (ai quali gli studiosi sono appartenuti o con i quali mantengono strette relazioni), l’esperienza istituzionale (all’interno di commissioni nazionali o internazionali, o di think tank) e la sfera mediatica. Si tratta di un lavoro più orientato a fornire assistenza alla decisione politica di fronte a un pericolo presentato come particolarmente minaccioso, piuttosto che improntato a un reale interesse riguardo alle dinamiche del conflitto. Comprendere la «violenza politica» implica innanzitutto mettere in dubbio l’apparente unità del fenomeno. I legami specifici che potevano esistere tra alcuni militanti italiani e Ad, o tra la Raf e gli attivisti della Frazione armata rivoluzionaria libanese (Farl), non stanno a significare che tutti questi movimenti sarebbero legati da un «filo rosso», come si diceva all’epoca (vale a dire manipolati dai sovietici), né che perseguissero gli stessi obiettivi. Allo stesso modo, è assurdo pensare che siano delle motivazioni identiche ad animare i combattenti del Gruppo salafita algerino per la predicazione e il combattimento (Gspc) e quelli della Jemaah Islamiyyah indonesiana, nonostante i due gruppi abbiano accettato di agire sotto l’egida di al Qaeda. Altrettanto artificiale sarebbe l’idea di raggruppare sotto un’unica designazione i gruppi composti da qualche decina, o centinaia, di individui estremisti di cui stiamo parlando e organizzazioni politiche militarizzate che dispongono di una forte base sociale e territoriale, come Hamas in Palestina, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) o il Partito dei lavoratori curdi (Pkk) in Turchia, organizzazioni tuttavia classificate terroriste dall’Unione europea (6). Un buon metodo per analizzare la violenza politica consiste forse nel mettere in relazione i contesti nei quali si sviluppa, le organizzazioni che la praticano e i percorsi dei militanti che le compongono (7). Così, per esempio, la causa dei cicli di violenza osservati in Europa e in Giappone tra la fine degli anni ’60 e quella degli anni ’80, è da ritrovarsi innanzitutto nella perdita di influenza di quelli che erano stati potenti movimenti sociali. È il loro progressivo riflusso a spingere un certo numero di militanti verso lo scontro armato. Allo stesso modo, l’emergere di gruppi jihadisti negli anni ’90 è da collegare all’impossibilità da parte delle forze politiche che professano l’islam, di conquistare il potere (in particolare in Algeria, in Egitto e in Arabia saudita) (8). Una simile radicalizzazione prende comunque forme differenti. In Italia, viene a investire innanzitutto il mondo operaio. Alla fine degli anni ’60, le fabbriche (Pirelli e Siemens in particolare) sono scosse da una forte conflittualità sociale. La «propaganda armata» si sviluppa in questo campo. Le prime azioni – distruzione delle auto di capireparto o sequestro di dirigenti – riflettono la composizione sociale dei gruppi armati. Tra le 1.337 persone condannate per appartenenza alle Brigate rosse (Br), il 70% è costituito da operai, impiegati nel terziario o studenti. Prima Linea, formata in prevalenza da disoccupati e studenti, contava comunque una buona parte di operai tra i suoi 923 membri perseguiti dalla giustizia (9). «Stavano per attaccarci» In Germania, è piuttosto tra gli studenti e la piccola borghesia intellettuale che vengono reclutati i militanti della Raf. Il sociologo Norbert Elias ha sottolineato che l’emergere di un’opposizione extraparlamentare alla fine degli anni ’60 era dovuta a un «conflitto sociale generazionale», caratterizzato da un antagonismo tra giovani fortemente politicizzati, ma tenuti lontani dalle responsabilità politiche, e gente più vecchia a monopolizzarle (10).
Se l’Italia e la Germania hanno conosciuto i movimenti radicali più massicci è anche perché, venti anni dopo la seconda guerra mondiale, la paura di un ritorno di governi fascisti pesava in quei paesi molto più che altrove. «Con la strage di Piazza Fontana – racconta Mario Moretti, uno dei principali dirigenti delle Br – una sola cosa ci sembrava chiara: che stavano per attaccarci (11).» La bomba che esplode il 12 dicembre 1969 nella Banca nazionale dell’agricoltura di Milano, facendo 16 morti e un centinaio di feriti, accredita nei fatti il rischio di un’evoluzione autoritaria del regime. Cosa che dichiara anche Segio: «Sono cresciuto con l’idea che stavano preparando un colpo di stato, come in Grecia o in Cile. E che ci avrebbero uccisi. D’altra parte, avevano già iniziato». Di fatto, tra il 1969 e il 1975, gli attentati e le violenze politiche sono attribuibili principalmente a gruppi di destra (al 95% dal 1969 al 1973, all’85% nel 1974 e al 78% nel 1975) (12). Sarà solo successivamente che l’estrema sinistra armata intensificherà la sua attività: quasi l’80% degli attentati mortali che le sono stati attribuiti, o da essa rivendicati, hanno avuto luogo tra il 1978 e il 1982 (13). In Germania, le giovani generazioni rimproveravano i responsabili politici di aver causato – direttamente o indirettamente – l’ascesa di Adolf Hitler. Questi giovani, spiega Elias, pensavano che «la tendenza a utilizzare la violenza fisica, che aveva portato, nel caso della Repubblica di Weimar, all’insediamento di un governo autocratico fondato sulla forza, avrebbe potuto nuovamente imporsi nella Repubblica di Bonn [capitale della Germania dell’ovest]. (…) E traevano una buona parte di energia riformatrice o rivoluzionaria dall’idea che, dietro la facciata del loro stato parlamentare multipartitico, un nuovo dittatore aspettasse già la sua ora, con i suoi reggimenti e la polizia della Repubblica federale come sua avanguardia (14)».
Diversa è la situazione in Francia. Il regime di Vichy non conta che qualche sparuto nostalgico, e le mobilitazioni di estrema destra per l’Algeria francese sono state sconfitte. Il programma comune di governo, firmato nel 1972 dal Partito socialista, dal Partito comunista francese e dai radicali di sinistra canalizza l’energia riformatrice e nello stesso tempo apre la via a possibilità di reinvenzione di se stessi. L’estrema sinistra perde forza mano a mano che le incertezze scoperchiate dagli avvenimenti del maggio-giugno 1968 vengono dissipate e che il gioco politico si stabilizza. La Lega comunista, sciolta nel giugno 1973, dopo l’attacco a un meeting di estrema destra, abbandona la lotta di strada di strada e riorienta le sue priorità verso «il lavoro nelle fabbriche». Ribattezzata Lega comunista rivoluzionaria (Lcr), inizia un lento declino che lascia nello sgomento i suoi militanti più proiettati verso l’azione violenta (15). Da parte sua, Sinistra proletaria (Sp), vietata nel 1970, si dissolve nel novembre 1973, dopo aver esitato a prendere una piega più radicale – specialmente in occasione del rapimento di un dirigente della Renault, seguito alla morte di un militante operaio maoista, Pierre Overney. Contrariamente a quello che accade in Italia e in Germania, sono ben pochi i militanti francesi a impegnarsi davvero nelle azioni armate. A quell’epoca si formano gruppi di ispirazione maoista: le Brigate internazionali (Bi, 1974-1977) rivendicano alcuni attentati contro diversi rappresentanti di governi stranieri autoritari (Bolivia, Uruguay, Spagna, Iran, Mauritania); i Nuclei armati per l’autonomia popolare (Napap) conducono nel 1977 una serie di azioni contro istituzioni pubbliche o grandi imprese, la più significativa delle quali è l’assassinio di Jean-Antoine Tramoni, la guardia giurata della Renault che aveva ucciso Overney. Nel 1979, Action directe nasce dalla convergenza di quest’area di influenza con i Gruppi di azione rivoluzionaria internazionalista (Gari), sigla che raggruppava attivisti che, da una parte all’altra dei Pirenei, lottavano contro il franchismo. Vicino a Salvador Puig Antich – giustiziato dalla dittatura spagnola nel 1974 –, Rouillan racconta con enfasi nelle sue memorie: «Continuiamo tre decenni di guerriglia, continuiamo a tessere il filo sottile che ci lega a un’impresa eroica, a un esercito di stracci e di scarpe rotte, e alla speranza scritta a grandi lettere con polvere e piombo (16).» Legittimità morale e know-how si trasmettono così attraverso queste genealogie. Organizzare un’azione da commando, realizzare documenti falsi, attaccare le banche per finanziare la lotta sono strategie già sperimentate. Numerose armi delle Br provenivano dai nascondigli dei partigiani della seconda guerra mondiale (tra cui una delle mitragliatrici utilizzate nel rapimento di Aldo Moro, l’ex presidente del consiglio italiano, che si inceppa…); o, nel caso di Ad, da quelle conservate dai repubblicani spagnoli in esilio in Francia. Nel caso dei jihadisti internazionali, bisogna ricordare il ruolo della lotta contro i sovietici in Afghanistan, che consentì a un’intera generazione di attivisti di socializzare attraverso la lotta e mise in circolazione ogni sorta di materiale (armi, esplosivi, denaro, ecc.) e di «competenze». Ma solo una piccola minoranza passò all’azione. Eliminiamo sin d’ora le spiegazioni semplicistiche, per le quali l’uso della violenza rifletterebbe una soggettività patologica o un impulso di morte. «I terroristi – spiega la filosofa Hélène L’Heuillet – fanatici o semplicemente assoldati, mettono la loro morte al servizio della morte perché convinti, almeno per il periodo del loro reclutamento, dalla negazione di tipo nichilista, che promette solo di prendere parte alla distruzione di un mondo che odiano (17).»
La formulazione ricorda stranamente quella degli scribacchini della dittatura argentina, che nel 1978 vedevano nei movimenti di resistenza armata gli «amanti della morte con la statura degli eroi tragici», il cui «comportamento sociale corteggia l’amore per la morte (18)». Invece, l’azione violenta è innanzitutto un affare collettivo: individui isolati, capaci da soli di votarsi all’estremismo – ieri attraverso delle letture, oggi attraverso la frequentazione di forum in rete – e di passare all’azione, sono estremamente rari. Al punto che alcuni agenti dei servizi segreti li classificano come «dossier da camicia di forza»… È invece il gruppo a giocare un ruolo cruciale, e in primo luogo la famiglia. Non è raro, nel caso di conflitti decennali, riscontrare diverse generazioni coinvolte nella lotta armata: presso i militanti nazionalisti baschi o irlandesi, per esempio, o gli attivisti sikh, kurdi o palestinesi. Claude Halfen, un membro di Ad, racconta: «Provengo da una famiglia di partigiani, (…) ai miei nonni è stata tolta la cittadinanza. L’hanno riottenuta dopo il 1927 e all’improvviso, nel 1941, si sono ritrovati apolidi, braccati, come selvaggina. Sono così cresciuto con l’idea che a un certo punto l’unico modo per conservare la propria dignità fosse quello di impugnare le armi contro un potere illegittimo, e contro la sua violenza (19).»
La memoria familiare delle lotte incita in qualche modo la militanza violenta e la rende lecita. E questo avviene anche per i rapporti di amicizia. A volte, i legami di solidarietà tra giovani cresciuti nello stesso quartiere riescono a cementare il gruppo, per esempio nel caso di Khaled Kelkal (coinvolto negli attentati del 1995 in Francia), o di alcuni commando di Euskadi ta Askatasuna (Eta) in Spagna e dell’Armata repubblicana irlandese (Irish republican army, Ira) in Irlanda del nord. Simili ristrette cerchie possono sviluppare la graduale radicalizzazione degli individui che ne fanno parte, producendo rappresentazioni condivise del mondo sociale. E i vecchi amici, o i meno convinti, si allontanano mano a mano che il nucleo centrale diventa più coeso e unito dalle stesse convinzioni (20). Ma non è la propaganda delle organizzazioni clandestine ad attirare i futuri membri. Come scrive Silke, «gli individui non si radicalizzano grazie agli sforzi di un reclutatore di al Qaeda, il processo sopraggiunge in maniera quasi indipendente dai jihadisti convinti (21)». Gli autori degli attentati del 7 luglio 2005 a Londra mantenevano un rapporto abbastanza distaccato con la religione, e non avrebbero richiesto aiuto ai dirigenti di al Qaeda se non al momento di realizzare il loro progetto. La deriva verso l’azione violenta di un gruppo ideologicamente radicalizzato non è tuttavia né sistematica né necessaria. Altri fattori, spesso inestricabilmente legati, devono intervenire: il comportamento delle autorità pubbliche e lo scivolamento nella clandestinità. La violenza politica non è quasi mai opera di un unico gruppo di attivisti. È invece relazionale: le politiche estere condotte nei confronti di certi paesi, le tipologie di guerra, di coercizione, cioè di tortura, l’intensificazione delle misure di sicurezza, i controlli vissuti come vessatori e discriminatori hanno lo stesso peso delle strategie e delle tattiche delle organizzazioni radicali. Così, in Irlanda del nord, l’incarcerazione arbitraria, nel 1971, di quasi 2.000 persone sospettate di terrorismo ha spinto centinaia di giovani operai nazionalisti a unirsi all’Ira (22). Un ulteriore passo è varcato con l’entrata nella clandestinità, spesso per sfuggire alle forze dell’ordine a seguito di reati minori. Si tratta di un impegno totale che comporta il cambiare nome, identità, il chiudere con tutto quello (e quelli) che si è conosciuto(i). «In clandestinità – racconta Moretti – la sopravvivenza dipende dalla rapidità con fai il salto, con la quale cambi per sempre la tua vita. Alla fine, (…) diventi un fantasma dal punto di vista esistenziale. Non perché tu stesso sia irreale; anzi, anche i compagni sono assolutamente reali e i rapporti con loro sono certamente più intensi. Ma è per gli altri che non devi esistere (23).»
Le testimonianze di alcune mogli e compagne degli attentatori dell’11 marzo 2004 a Madrid mostrano questo graduale processo di chiusura del gruppo, che arriva fino al completo allontanamento anche delle persone più vicine (24). La sicurezza diventa un elemento centrale della vita clandestina, che è rigidamente disciplinata. Nel 1975, gli investigatori scoprirono in un nascondiglio di Pavia un manuale intitolato «Norme di sicurezza e stile di lavoro», che costituiva l’agenda che regolava ciascun dettaglio della vita quotidiana delle Br: che si trattasse di cibo, abbigliamento, uso del telefono o persino dei rapporti sessuali. Nel 2006, la Guardia civile spagnola trovò una cosa simile relativa all’Eta. Ma queste regole non sono sempre rispettate: gli arresti a seguito di una fuga romantica o di un contatto con una madre malata rimangono frequenti. Nel 1971, tutti gli appartamenti clandestini del Movimento di sinistra rivoluzionaria (Mir) cileno furono localizzati quando alcuni militanti, ubriachi fradici, rimasero vittime di un incidente stradale: nell’auto, i carabinieri accorsi sul posto trovarono le bollette di elettricità e gas con i loro indirizzi (25)… Procurarsi armi o nuovi nascondigli, produrre documenti falsi, riempire le casse – grazie alle rapine in banca, tra le altre cose –, effettuare sopralluoghi per un’operazione futura e, dovesse servire, ricominciare da zero dopo un’ondata di arresti: spesso l’urgenza ha la meglio sulla strategia. Al punto che alcune scelte tattiche si sono rivelate incomprensibili, anche per i simpatizzanti più vicini. Non si tratta tanto di manipolazioni dei servizi segreti, come a volte si legge – e che comunque possono esserci state –, quanto invece, degli effetti di un meccanismo cui è quasi impossibile sfuggire. «Non bastava riconoscere di essersi arenati per sapere in quale direzione andare», testimonia Moretti. Innanzitutto perché l’esperienza clandestina rende difficile l’abbandono dei prigionieri. Per fedeltà o per necessità, bisogna pianificare attacchi contro le prigioni (come quello di Rovigo, in Italia, da parte di alcuni militanti di Prima linea, nel gennaio 1982), sequestri di ostaggi (come quello dell’Ambasciata tedesca dell’Ovest a Stoccolma, nel 1975 o il dirottamento, nel 1977, di un aereo Lufthansa da parte di militanti della Raf), o ancora il rapimento di personalità di spicco (Moro da parte delle Br; Hans Martin Schleyer, presidente degli industriali tedeschi, da parte della Raf). Allo stesso modo, la prosecuzione della lotta appariva come un mezzo per alleggerire le condizioni di detenzione dei prigionieri, com’è accaduto per l’Eta in Spagna. Del resto, le logiche di funzionamento e di protezione di questi gruppi li condannano a un reclutamento estremamente selettivo, che impedisce loro di raggiungere quella massa critica in grado forse di creare un equilibrio di potere sufficiente ad avviare negoziati politici. «Se non apri una breccia nel fronte avversario, il tuo discorso resta lettera morta – analizza Moretti. Qual è il senso della nostra strategia se non possiamo più contare su negoziati tattici permanenti, imponendo qui, negoziando là, ottenendo insomma qualcosa per coloro che rappresentiamo?» La fuga in avanti e l’inasprimento delle azioni, che si tratti di rappresaglie contro le forze dell’ordine o di attacchi contro gli alti rappresentanti dello stato, accentuano la demonizzazione dei gruppi clandestini, aumentando la distanza tra questi ultimi e i movimenti sociali sul cui sostegno contano. Cosa che autorizza solitamente una nuova escalation di repressione, sotto forma di leggi di emergenza. Al punto che spesso, ai militanti non resta che la fuga, la prigione o la morte. Certo, la lotta di piccoli gruppi armati mantiene una capacità permanente di colpire lo stato – i suoi rappresentanti come i suoi simboli –, eppure non riesce mai a farlo vacillare, anche quando aumenta il grado di violenza omicida, come nel caso degli attentati dell’11 settembre 2001. In questo senso, una simile modalità di azione incappa negli stessi ostacoli della propaganda attraverso le azioni eclatanti portata avanti dagli anarchici alla fine del XIX secolo. L’attacco ai simboli del potere può essere accolto favorevolmente in ambienti abbastanza vasti, ma non causa il loro reclutamento nella lotta. In compenso, scatena una repressione spietata, certamente sproporzionata rispetto a quella che colpisce i diritti riconosciuti in caso di crimini della stessa entità. Rilasciata dal carcere nel 2004, a causa di una grave malattia, Joëlle Aubron, militante di Ad, riassumeva questa tensione: «Siamo stati in molti a pensare, a contare su uno slancio che alla fine non è arrivato. La nostra ipotesi è fallita. È chiaro. (…) Tuttavia, non ho nulla da rimproverarmi. (…) Perché questa spinta, ricattatoria, al rinnegamento, è stata sin troppo presente in questi 17 anni della nostra prigionia (26).»
note:
(1) La prima linea, di Renato de Maria (2009), tratto dall’opera di Sergio Segio Miccia corta. Una storia di Prima linea. DeriveApprodi, Roma, 2005.
(2) Cfr. Der Baader Meinhof Komplex («La bande Bader Meinhof»), di Uli Edel (2008); Ni vieux ni traîtres, di Pierre Carles e Georges Minangoy (2005); Carlos, di Olivier Assayas (2010); e United Red Army, di Koji Wakamatsu (2008).
(3) The Guardian, Londra, 3 luglio 2007.
(4) Andrew Silke, «Holy warriors: Exploring the psychological processes of jihadi radicalization», European Journal of Criminology, 5
(1), Londra, 2008.
(5) Cfr. Roger Le Doussal, Commissaire de police en Algérie, 1952-1962, Riveneuve Editions, Parigi, 2011.
(6) Gazetta ufficiale dell’Unione europea, Lussemburgo, 12 luglio 2010.
(7) Cfr. Donatella Della Porta, «Mouvements sociaux et violence politique», in Xavier Crettiez e Laurent Mucchielli (a cura di), Les Violences politiques en Europe. Un état des lieux, La Découverte, Parigi, 2010; Isabelle Sommier, La Violence révolutionnaire, Presses de Sciences Po, Parigi, 2008.
(8) Cfr. Gilles Kepel, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico. Carocci, Roma, 2004.
(9) Le cifre sono di Paolo Persichetti e Oreste Scalzone, La Révolution et l’Etat. Insurrections et contre-insurrection dans l’Italie de l’après-68, Dagorno, Parigi, 2000.
(10) Norbert Elias, «Conflits de générations et célébrations nationales: analyse et perspectives», Cultures & conflits, Parigi, n° 81-82, 2011.
(11) Mario Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana. Mondadori, Milano, 2007.
(12) Donatella Della Porta e Maurizio Rossi, Cifre crudeli: Bilancio dei terrorismi italiani, Istituto Cattaneo, Bologna, 1984.
(13) Paolo Persichetti e Oreste Scalzone, La Révolution et l’Etat, op. cit.
(14) Norbert Elias, «Conflits de générations…», op. cit.
(15) Morire a trent’anni, di Romain Goupil (1982). Il film ripercorre, fino al suo suicidio avvenuto nel 1978, la vita di Michel Recanati, principale responsabile del servizio d’ordine della Lega comunista, e rende bene conto di quel periodo.
(16) Jann-Marc Rouillan, De mémoire
(2). Le deuil de l’innocence: un jour de septembre 1973 à Barcelone, Agone, Marsiglia, 2009.
(17) Hélène L’Heuillet, Aux sources du terrorisme. De la petite guerre aux attentats-suicides, Fayard, Parigi, 2009.
(18) Citato da Gabriel Rot, «La construcción del sinsentido », Le Monde diplomatique edizione spagnola, Buenos Aires, mai 2011.
(19) Testimonianza in Ni vieux ni traîtres, op. cit.
(20) Léon Festinger, Hank Riecken e Stanley Schachter, L’Echec d’une prophétie, Presses universitaires de France, Parigi, 1993.
(21) Andrew Silke, «Holy warriors… », op. cit.
(22) Paddy Hillyard, «The “war on terror”: Lessons from Ireland», European Civil Liberties Network, 2005.
(23) Mario Moretti, Brigate rosse, op. cit.
(24) Cfr. «11-M. El relato», supplemento alla rivista El País, Madrid, 8 luglio, 2007.
(25) Enérico García Concha, Todos los días de la vida. Recuerdos de un militante del Mir chileno, Cuarto Propio, Santiago, 2010.
(26) Libération, Parigi, 28 agosto, 2004. (Traduzione di L. R.)
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