Diritti e impegno, armi della pace

Da Aristofane a Gandhi, da Hugo ad Einstein: tutti i campioni della «non violenza attiva»

Da Aristofane a Gandhi, da Hugo ad Einstein: tutti i campioni della «non violenza attiva»

L’Arco della Pace è un imponente monumento che taglia in due piazza Sempione, nel cuore di Milano. Ora è anche il titolo di un’opera monumentale: 3 volumi, 16 capitoli, 1.800 pagine. La firma Carlo Vallauri per i tipi di Ediesse, con l’ambizione di colmare un vuoto nella nostra narrazione collettiva, scrivendo una storia della pace. È un nuoto controcorrente, quello di Vallauri: come quello dei salmoni. Perché i libri di storia raccontano le guerre, non la pace. La pace per definizione non ha storia, o forse è fuori dalla storia.
E infatti il racconto della pace significa anzitutto esplorare un sogno, un desiderio, un’utopia che l’umanità coltiva da tempo immemorabile. Che si riflette per esempio in una commedia di Aristofane (Lisistrata), dove le donne imbastiscono uno sciopero del sesso per costringere i mariti a deporre le armature di battaglia. Che cova in tempre insospettabili, perfino nei capi militari: dopo la vittoriosa spedizione dei Mille, Garibaldi inviò da Napoli un memorandum alle potenze europee, invitandole a sciogliere gli eserciti e le flotte. Che scaglia maledizioni contro l’idea stessa della guerra: una follia, diceva Erasmo da Rotterdam.
Sicché in questi tre volumi sfila una galleria di personaggi storici, di pensatori, papi, artisti, condottieri. Di campioni della pace come Gandhi, o come Einstein, il cui ultimo gesto prima di morire fu la sottoscrizione d’un manifesto contro le armi nucleari. E a un certo punto la storia si mescola con la storiografia, con la sociologia, con la psicologia sociale. Con le dottrine politiche, filosofiche, giuridiche. L’andatura si fa rapsodica e incostante. Vi si riversano letture talora un po’ disordinate, lunghe digressioni che spezzano il filo degli eventi. È un’opera irregolare, quella di Vallauri. D’altronde è irregolare anche l’autore: dirigente pubblico, storico, scrittore, giornalista. Difficile catturarlo in un’unica etichetta.
C’è però una regola, c’è una bussola nel lungo racconto di Vallauri. O meglio ce ne sono due, ed è su questa doppia proposta di lettura che occorre soffermarsi. In primo luogo il nesso tra movimenti e istituzioni: perché i gruppi che s’oppongono alla guerra hanno bisogno di forgiare strutture stabili e coese, se vogliono incidere sul corso della storia. Allo spontaneismo deve subentrare l’organizzazione. E a quest’ultima l’azione pratica, concreta: come quando nel 1914 un inglese (Modgkin) e un tedesco (Schulze) fondarono il Movimento per la riconciliazione, che inventò l’obiezione di coscienza al servizio militare.
Non che tale sforzo, di per sé, sia sufficiente. C’è spesso nelle guerre un che d’accidentale, un errore di calcolo, un elemento imponderabile che sfugge ai piani delle stesse istituzioni. Ne è prova la carneficina innescata nel primo Novecento, quando nessun governo aveva realmente l’intenzione di aprire un conflitto mondiale. Proprio per questo, tuttavia, servono contrappesi da opporre alla forza cieca degli eventi. Servono luoghi d’ascolto e di moderazione, dove si parli il linguaggio della pace.
Ma è un linguaggio impervio, specie nei momenti di tensione che precedono le guerre. In quei frangenti devi schierarti, o di qua o di là. Altrimenti t’accuseranno d’intelligenza col nemico, come accadde nel 1932 ai pacifisti francesi guidati da Romain Rolland. Del resto assai spesso i movimenti sono stati vittime delle loro stesse contraddizioni. È successo negli anni Sessanta e Settanta del secolo XX, nel dopo Vietnam che pure scolpì nelle coscienze il valore della pace, senza però impedire uno sguardo strabico e distratto verso la violenza di Stato dei Paesi socialisti. Succede per lo più rispetto alla domanda su cui parrebbe infrangersi il sogno della pace: è giusto tollerare gli intolleranti? È utile una risposta pacifica alla prepotenza altrui?
Qui la risposta più plausibile è quella che dettava Einstein: una pace «non disarmata». Ma nella storia umana le risposte sono state innumerevoli, come i convegni (memorabile quello del 1848 a Parigi, presieduto da Victor Hugo), le consulte per la pace (in Italia la prima nacque nel 1962), le leghe internazionali (come «No Peace without Justice»), le manifestazioni (quella del 1982 a New York radunò 700 mila persone), le encicliche papali (a partire da Pacem in Terris di Giovanni XXIII), i centri studi sul disarmo (come lo Stockholm International Peace Research), o per l’appunto i movimenti pacifisti sorti in Europa e altrove dopo la seconda metà dell’Ottocento.
Queste esperienze danno corpo e forma all’istanza della pace, e dunque segnano il passaggio — per così dire — da una sfera pregiuridica a un’altra regolata dalle norme, dalle istituzioni. Da qui il tentativo d’assoggettare anche la guerra al mantello del diritto (la prima teoria si trova in Grozio: De iure belli ac pacis, 1625). Da qui, più in generale, il nesso fra pace e diritti — l’altra bussola che orienta la ricerca di Vallauri. E d’altronde, se parlano le armi, i diritti sono costretti a tacere. Al pari delle istituzioni che li garantiscono, che li rendono effettivi. Qualcuno saprebbe forse immaginare un tribunale costituzionale all’opera mentre nelle strade divampa una rivoluzione?
I diritti, quindi, sono la cartina al tornasole della pace. Se retrocedono, se in qualche caso vengono sospesi, significa che abbiamo già le gambe immerse in un tempo di guerra. E non è forse (ancora) questo il nostro tempo? All’alba del terzo millennio si contavano una ventina di guerre civili, dalla Liberia all’Indonesia. Il giorno dell’attacco alle Torri gemelle di New York, altrove (in Africa, in Asia, nel remoto Oriente) morirono molte più persone in guerre dimenticate dai mass media. Eppure quelle guerre ci riguardano, ci toccano da fin troppo vicino. Sono l’effetto d’una diseguaglianza che cresce fra gli Stati (il paese più ricco, il Qatar, ha un reddito pro capite 428 volte maggiore del più povero, lo Zimbabwe). E che si riflette poi dentro gli Stati, alimentando disordini di piazza, in Italia come in Grecia. Non c’è pace senza giustizia. E non c’è giustizia senza eguaglianza, come diceva Kant.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password