Il ruolo di Askatasuna, il centro sociale estremista
Il ruolo di Askatasuna, il centro sociale estremista
A seguire il filo che lega gli scontri romani del dicembre 2010 e di piazza San Giovanni alla rivolta perenne contro la Tav in Val di Susa, si arriva al portone di una palazzina pitturata di rosso. Corso Regina Margherita, Torino, e una sigla ostica che in questi giorni ha raggiunto notorietà nazionale. Askatasuna significa libertà in lingua basca, ed è il nome del centro sociale che più di ogni altro rappresenta l’emersione di una realtà radicale e minoritaria che l’Italia e i movimenti avevano dimenticato.
Se tutte le strade della capitale portano al cantiere di Chiomonte, dove domenica ci sarà una manifestazione nazionale No Tav, Askatasuna è una sorta di pifferaio magico degli incappucciati. Gli scontri durissimi del 3 luglio in valle non sono stati certo una prova generale di Roma. Sono un altro film, ma con gli stessi protagonisti, arrivati da centri sociali di Roma, Bologna, Napoli, Bari e Palermo. I «torinesi» c’erano il 14 dicembre in piazza del Popolo, e sono stati loro a portare la lotta contro l’Alta velocità fuori dall’ambito locale, consegnandole un aspetto permanente di «resistenza attiva», scelta condivisa da parte delle comunità locali. Scontro frontale con le forze dell’ordine, assalto alle reti del cantiere Tav, tutto il repertorio esibito durante l’estate. Sabato scorso erano a Roma in proprio, almeno un’ottantina di persone che si sono date molto da fare. Ci tengono a tenere le due vicende separate, in trasferta la sigla sociale è quella originale.
Askatasuna nasce nel 1996, quando viene occupato il palazzo di proprietà del Comune, in una zona popolare, Vanchiglia, vicina all’università e al centro. Il 1998 è l’anno degli arresti degli squatters accusati di attentati in Val di Susa. A marzo due di loro si suicidano in carcere. La manifestazione del 4 aprile nel centro cittadino è un debutto in linea con il seguito della storia. La Torino dei caffè storici viene attraversata da un’onda di furiosi appartenenti alla Torino delle case occupate che devastano e spaccano. Gli amministratori locali prendono debiti appunti a futura memoria. Quegli scontri sono l’episodio fondante della dialettica con le istituzioni cittadine. Non è un caso che Piero Fassino, padrone della casa di Askatasuna, ieri se ne sia uscito con la seguente frase. «Eventuali operazioni di sgombero vanno gestite tenendo conto dei problemi di ordine pubblico che possono ulteriormente creare». Il senso è chiaro.
Il 1999 è l’anno che fa da spartiacque. Al corteo mattutino del Primo maggio volano botte tra militanti, polizia e servizio d’ordine degli allora Ds. L’oggetto del contendere è l’appoggio del governo di centrosinistra alla guerra in Kosovo. Nel pomeriggio la perquisizione della polizia lascia strascichi e rancori pesanti. «1-05-99 noi non scordiamo» è ancora oggi uno degli striscioni che rendono riconoscibile Askatasuna. Pochi mesi dopo Lele Rizzo, attuale portavoce, fonda con altri il primo comitato popolare di lotta contro l’Alta velocità, a Bussoleno. La sovrapposizione tra le due realtà comincia allora. E la radicalità non è solo farina del sacco di Askatasuna. Chi scrive ha tentato un esperimento dopo gli scontri del 3 luglio. Si è presentato a Bussoleno e Chiomonte con la maglietta del centro sociale. In un caso gli è stato anche offerto il caffè.
È inutile girarci intorno: il 14 dicembre i cosiddetti neri erano pochi; sabato scorso invece erano centinaia, e in piazza del Popolo sembravano moltiplicarsi, con l’adesione spontanea di ragazzi che tra gli incappucciati e la polizia sceglievano di stare con i primi. Nel suo piccolo, anche Askatasuna certifica l’allargamento di quest’area, che sfrutta anche la scarsa coesione dei movimenti di oggi per fare proseliti. Tra collettivi studenteschi e universitari, il centro sociale di corso Regina Margherita non ha mai avuto un seguito come quello odierno. La macchia nera, chiamiamola così, si espande.
Non esiste neppure una rete, non esiste più dal 2001, quando questo arcipelago senza un vero nome decise di andare per conto suo. Askatasuna non partecipò al G8, in rotta con un movimento no-global considerato troppo vicino alla politica, ma il suo ricambio generazionale è dovuto anche alle vicende del 2001. «Sono entrato in Aska dopo Genova — racconta Gianluca, uno di quelli che a Roma c’era —, mi sembrava il modo più concreto per combattere il potere». Dice Lele Rizzo, che di Askatasuna è l’anima politica: «La manifestazione di sabato dimostra come aree vicine siano incapaci di comunicare. Noi decidiamo da soli, con poche altre realtà. E forse il vero problema è in una rabbia giovanile non rappresentabile da nessuno».
Il fascino che esercita quest’area su alcuni giovani sta soprattutto nelle pratiche. Ogni tanto Askatasuna viene inserita nella galassia anarco-insurrezionalista, ma le sue radici sono altrove. «Siamo autonomi come nel 1977, nei metodi e negli obiettivi» dice Rizzo. A fare della filologia, il legame con alcune realtà della capitale risiede in una affinità storica. Più di Toni Negri, l’autonomia di riferimento è quella romana di via dei Volsci, durissima nello scontro, ispirata al «Vogliamo tutto» di Nanni Balestrini.
Ma i ragazzi nulla sanno di questa impalcatura ideologica. Ne recepiscono solo il messaggio estremista, ribadito da episodi come il lacrimogeno lanciato contro il leader Cisl Raffaele Bonanni, ed è quello che li spinge fino a Chiomonte. «Un tempo — racconta un altro militante — ai fascisti si contrapponeva una sinistra altrettanto aggressiva. Poi è diventata molle, addomesticata. Noi rappresentiamo una sinistra dura, che non teme lo scontro per cambiare le cose. Il richiamo della Val di Susa è tutto qui: è l’unico posto dove oggi esiste una lotta sociale vera, con una contrapposizione vera». Quella che alla manifestazione nazionale di domenica non si dovrebbe vedere, per fortuna. L’eco degli scontri di Roma ha prodotto troppi riverberi. Gli autonomi fuori tempo massimo picchiano come fabbri, ma non sono stupidi.
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