Ci vuole qualcosa che vada ben oltre le usuali «politiche attive del lavoro». Ci vuole una ribellione radicale
Ci vuole qualcosa che vada ben oltre le usuali «politiche attive del lavoro». Ci vuole una ribellione radicale
Occorreva arrivare alla situazione disastrosa di oggi perché i media e i dirigenti sindacali ritenessero necessario cambiare tono o cambiare rotta sui problemi del lavoro giovanile?
Se nella regione più ricca del paese, la Lombardia, solo il 9,7% dei laureati ha trovato nell’ultimo anno un impiego a tempo indeterminato full time, il 16% ha dovuto lavorare gratis in un cosiddetto tirocinio, e tutto il resto, il 74%, si è dovuto accontentare di collaborazioni occasionali, a progetto, contratti a tempo determinato, d’apprendistato, d’inserimento ecc., vuol dire che siamo messi proprio male. La grande maggioranza dei giovani e un numero sempre crescente di persone tra i 35 e i 45 anni oggi si trova a dover scegliere tra essere disoccupato o essere occupato a condizioni indecenti.
La puntata di «Presa Diretta», il programma di Rai3 della domenica sera, dedicata ai problemi del lavoro giovanile, ha dato il segno che anche il sistema dei media deve cambiare tono. Le dichiarazioni di Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, al festival di Internazionale a Ferrara, rappresentano, se verranno messe in pratica, una svolta sulla questione dei “precari”. Si smette finalmente di dire «no al precariato» o di promettere un suo superamento e si comincia a immaginare di inserire una parte dei precari nel sistema della contrattazione sindacale.
Proprio ora che il contratto nazionale viene in sostanza superato?, potrebbe dire qualcuno. Purché si cominci a fare qualcosa, dico io, a sperimentare forme nuove di contrattazione, per mal che vada si farà emergere la realtà nascosta o taciuta.
Questo vale solo per i precari che sono all’interno di sistemi organizzativi complessi o comunque regolati da sistemi di relazioni industriali, come la pubblica amministrazione e le aziende medio-grandi.
Ma in questo Paese ci sono più di 8 milioni di persone che lavorano in imprese al di sotto dei 10 dipendenti, e la maggior parte di loro sono lavoratori autonomi. In questo Paese c’è un numero imprecisato ma sempre crescente di persone che lavora a giornata o per piccoli progetti, che guadagna 150 euro qua, 200 là, per portare a casa alla fine del mese 1.000 euro. Si fa per dire “portare a casa”, quanto più piccolo è l’incarico tanto più difficile farsi pagare, e sono lavori qualificati, talvolta di alta specializzazione tecnica: traduttori pressati dal committente sui tempi di consegna che vengono pagati dopo mesi, operatori dei media che fanno giornate di lavoro di 14/16 ore e vengono pagati dopo mesi o non pagati affatto perché lavorano in subappalto per agenzie che poi spariscono, falliscono, imbrogliano. Il cosiddetto universo del “precariato” è una galassia complessa, anche se il sindacato decide di muoversi subito, la situazione resterebbe comunque drammatica.
Ci vorrebbe qualcosa di ben più ampio, con il concorso di tutti, enti locali, fondazioni private, mondo della cooperazione, sistemi di comunicazione, qualcosa che vada ben oltre le usuali «politiche attive del lavoro» che in generale si sono risolte in corsi di formazione affidati a enti accreditati e qualche sportello per l’orientamento.
Ma per ora questo “qualcosa” ancora non si vede o non siamo stati capaci di immaginarlo, se tuttavia un giorno si vedrà, sarà sotto il segno di una ribellione radicale, che porterà alla luce i passi avanti che singoli gruppi di lavoratori, di studenti hanno fatto in questi anni con esperienze esemplari, affidandosi interamente a proprie reti di comunicazione.
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