Una notte bianca per annodare i fili della memoria

Da scrittore, si affida alle parole. Da allievo, non potrà  più superare il maestro. Da «figlio», resta irrimediabilmente orfano. Gabriele Dadati (un vero talento, ancora Under 30) dedica la sua ultima prova narrativa a Stefano Fugazza, scomparso a Piacenza nel 2009.

Da scrittore, si affida alle parole. Da allievo, non potrà  più superare il maestro. Da «figlio», resta irrimediabilmente orfano. Gabriele Dadati (un vero talento, ancora Under 30) dedica la sua ultima prova narrativa a Stefano Fugazza, scomparso a Piacenza nel 2009. Una figura speciale, perché al di là dell’inimitabile gestione della «Galleria Ricci Oddi» e del valore intellettuale non abbastanza riconosciuto Fugazza sapeva nutrire la curiosità altrui solo passeggiando con un gelato.
È lui il vero protagonista di Piccolo testamento (Laurana Editore, pp. 120, euro 12) che si rivela insieme scrittura terapeutica, elaborazione del lutto, pagina pubblica del dolore provato, romanzo di deformazione, traccia di una crescita. Dadati rinuncia finalmente al «libro nero» e torna a farsi sorvegliare dai fantasmi.
Così l’assenza fisica di Vittorio-Fugazza riempie la vita come lascito, se perfino la tela di ragno nel balcone della casa di famiglia impone di scrutare l’orrore. È l’eredità dei ricordi da stivare insieme alla banalità del male capace di azzerare legami, sintonie, destini che stimiamo quotidianamente eterni. Sono le disposizioni d’animo di fronte a occupazioni, amori, scelte durante un trasloco di orizzonte che eccede l’esodo dall’abitazione dei genitori alle stanze della solitudine da orfano.
«L’ho conosciuto nella tarda primavera del 2004, quando avevo ventitrè anni e ogni tanto mi infilavo nelle librerie se c’erano presentazioni». Dadati di suo è già un cronista certosino, ma si applica al rispetto della precisione. Non si tratta di aver metabolizzato la lezione, al contrario di dimostrarsi all’altezza di un’amicizia casuale diventata la bussola della vita. Fin dentro i primi sintomi della malattia, alla Garbatella. Nelle serate via via più silenziose. Nella trafila di esami, diagnosi e cure. E ancora dopo il funerale, la tumulazione, i pezzi dei giornali e la vergognosa assenza delle istituzioni.
Dadati rimugina domande e si risponde da orfano. Cosa significa amare per Vittorio-Fugazza? «In primo luogo attribuire una dignità intellettuale e a fianco di questa vedere delle doti umane. Ma c’era posto anche per un diverso sentimento, quello che prevede trasporto e compromissione con la felicità di un’altra persona. Lo riservava a una sola persona. Era sua figlia». La fede, per uno come lui? «Davvero era certo dell’inesistenza di Dio e davvero trovava la fede un fatto irrazionale. Aveva però sempre con sé, addosso a sé, il pensiero della morte, che teneva riposto e silenzioso da qualche parte, riposto e silenzioso ma sempre presente».
Ma nel romanzo c’è spazio per una sequenza femminile che si alterna fuori e dentro il letto. Nel buio del dolore, oltre al maestro perduto, si fa strada il grande amore naufragato nella definitiva lontananza. Un’altra corrispondenza unica che è morta, anche se lei è viva da qualche parte del mondo. Un secondo spettro che abita la nuova casa. La voce che si riaccende dopo cinque squilli. Il silenzio dopo la conversazione asettica, senza più eco dell’intima conoscenza reciproca. Resta la lista delle telefonate da smaltire in un paio d’ore.
Piccolo testamento si dipana in un’unica notte bianca. Un libro coraggioso, spudorato e tumultuoso: dalla citazione di Walter Benjamin sulla pazienza fino ai ringraziamenti irrituali. Una lettura che impone ad ognuno di fare i conti con la propria piccola risma di volontà. Gabriele Dadati, invece, può solo continuare a fare le ore piccole. Da scrittore, che non dimentica. Ma soprattutto da giovane uomo che deve ancora dare il meglio.

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