Informazione «Amanda batte la pace 4 a 1». È il risultato del monitoraggio sui media realizzato dalla Tavola della Pace
Informazione «Amanda batte la pace 4 a 1». È il risultato del monitoraggio sui media realizzato dalla Tavola della Pace
NONVIOLENZA.
Quando, nella primavera del ’60, feci a Perugia insieme con amici un bilancio delle iniziative prese e di quelle possibili, vidi che l’idea della marcia, soprattutto popolare e regionale piacque (…). La mia intenzione era che il gruppo d’iniziativa non fosse preminentemente di persone di partito. Sono un sostenitore del lavoro di aggiunta a quello di partiti, che ritengono certamente utili in una società democratica, ma non sufficienti. (…)
In un foglio di un convegno del Centro per la nonviolenza del 4-5 ottobre 1958 scrivevo: «Quanto al potere politico, chi lavora per i centri non lo considera come prima cosa a cui tendere, adoperando anche la menzogna ed eventualmente la violenza per conquistarlo o per mantenerlo. Il potere è da vedere insieme con molte altre forze ed iniziative, e piuttosto quale conclusione di un molteplice lavoro di formazione di larghe solidarietà, di ampie campagne sociali di pressione e di noncollaborazione, di scioperi a rovescio, di assemblee popolari, di varie iniziative dal basso ecc.. Uno degli errori della politica di opposizione in Italia è stato proprio di avere trascurato l’immensa potenza di ciò che non è potere politico. In un rilancio rivoluzionario nonviolento i Centri cureranno il formarsi di forze religiose, morali, culturali, sociali, che sono già potere e se stesse, anche se non immediatamente governo». Così, seguendo questo principio, pensai che il gruppo di iniziativa, formato intorno a me che rappresentavo il Centro di Perugia per la nonviolenza, fosse alquanto autonomo dai partiti politici, con i quali sarebbero stati presi contatti diretti soltanto dopo. (…)
Oltre quel primo carattere (…) tenevo sommamente ad un secondo carattere, che anzi era stato il movente originale del progetto: la marcia doveva essere popolare e, in prevalenza regionale. Avevo visto, nel dopoguerra della mia vita, le domeniche nella campagna frotte di donne vestite a lutto per causa delle guerre, sapevo di tanti giovani ignoranti ed ignari mandati ad uccidere e a morire da un immediato commando dall’alto, e volevo fare in modo che questo più non avvenisse, almeno per la gente della terra a me più vicina. Come avrei potuto destare la consapevolezza della gente più periferica, se non ricorrendo all’aiuto di altri e impostando una manifestazione elementare come è una marcia? (…)
Sapevo bene che gli aiutanti e i partecipanti non sarebbero stati in gran parte persuasi di idee nonviolente; lo sapevo benissimo, ma si presentava un’occasione di parlare di «nonviolenza» a «violenti», di mostrare che la nonviolenza è attiva e in avanti, è critica dei mali esistenti, tende a suscitare larghe solidarietà e decise noncollaborazioni, è chiara e razionale nel disegnare le linee di ciò che si deve fare nell’attuale e difficile momento. (…)
Il quarto carattere dell’iniziativa era la scelta di Assisi come meta della Marcia, che non poteva che muovere da Perugia, per ragioni organizzative. Se la Marcia doveva essere regionale e popolare, dato anche che nell’Umbria non vi sono basi o fabbriche di guerra, quale meta migliore di Assisi, ad una distanza sopportabile da Perugia, in una zona popolatissima, con un luogo elevato di eccezionale bellezza di paesaggio (lo stesso veduto da San Francesco)? (…)
Questi quattro caratteri della Marcia mi sono stati chiarissimi fin dal 1960: che l’iniziativa partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale (Centro di Perugia per la nonviolenza); che la Marcia dovesse destare la consapevolezza della pace in pericolo nelle persone più periferiche e lontane dall’informazione e dalla politica; che la Marcia fosse l’occasione per la prestazione e il lancio dell’idea del metodo nonviolento al cospetto di persone ignare o reluttanti o avverse; che si richiamasse il santo italiano della nonviolenza (e riformatore senza successo).
Una notevole pesantezza ideologica caratterizza gli italiani, derivante dall’uniformità dottrinaria cattolica e dal breve periodo di democrazia diffusa: gli italiani pensano che nell’assoluto, nelle cose serie (religione, politica, scuola) debba esserci uniformità, e la diversità sia cosa degli individui contingente e del folclore. Per questo accusano di eretico, di sovversivo, di diseducatore, chi è «diverso». (…) Fare una marcia con filoccidentalisti e filosovietici non è, certamente, accettare il Patto della Nato oppure il Patto di Varsavia, ma è parlare a loro francamente della nostra posizione di neutralisti, in nome del rapporto intimo con tutti e dal basso. (…)
Questo ho ben sentito che «dovevo», pronto, nella Marcia, ad affermare le mie idee, e pronto, dopo la Marcia, a lavorare, indipendentemente da filoccidentalisti e filosovietici, ad un Movimento nonviolento per la pace; ma disposto a riaccordarmi con gli uni e con gli altri, a precise condizioni, in manifestazioni ed iniziative di carattere plurimo, come fu, del resto, nell’opposizione e nella resistenza al fascismo.
Testo tratto dal volume di Aldo Capitini «In cammino per la pace» (Einaudi, 1962)
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