Dal nazionalismo mussoliniano alla sobrietà perduta
Dal nazionalismo mussoliniano alla sobrietà perduta
San Francesco fu davvero «il più italiano dei santi, il più santo degli italiani», come lo proclamò Pio XII? In coincidenza con il 50º anniversario della prima marcia della pace Perugia-Assisi e a pochi giorni dalla celebrazione della festa del patrono d’Italia nel 150° dell’Unità, vale forse la pena di ricordare che il Serafico Poverello è stato tradito in patria almeno due volte.
Per cominciare, lo tradì il fascismo. Più ancora che per la predica agli uccelli, la benedizione che ammansì il lupo di Gubbio o il miracolo della fonte, uno dei segni della santità del figlio di Pietro Bernardone fu il suo amore per tutte le creature di Dio («Laudato sie mi’ Signore, cun tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole…») e soprattutto per gli uomini. A partire dai più reietti, come racconta uno dei primi discepoli, Tommaso da Celano: «Un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò». Per non dire del suo viaggio fino alla corte del sultano ayyubide d’Egitto, al-Malik al-Kamil, nipote e successore del Saladino, nel 1219. Una visita, scrive Franco Cardini, che non si presta a equivoci: «È evidente che il “crociato” Francesco non voleva né poteva combattere: oltretutto era diacono, per cui l’uso delle armi gli sarebbe stato comunque interdetto. Approvava la guerra contro gli infedeli? Era uomo di pace: quello che egli sognava, l’ha dimostrato appunto recandosi dal sultano e portandogli la pace del Cristo».
Eppure il Duce usò proprio lui, l’uomo del dialogo con l’«altro», come simbolo di un nazionalismo che si incardinava anche nella tradizione cattolica: «La nave che porta in Oriente il banditore dell’immortale dottrina accoglie alla prora infallibile il destino della stirpe, che ritorna sulla strada dei padri. E i seguaci del Santo che, dopo di lui, mossero verso Levante, furono insieme missionari di Cristo e missionari d’italianità». Al punto che il podestà fascista di Assisi, Arnaldo Fortini, si spinse nel 1935 a lanciare un incitamento, trasmesso dalla radio, alle truppe che stavano aggredendo l’Etiopia marciando «per le strade segnate dalle orme sanguinose dei missionari francescani».
C’è un piccolo grande libro che aiuta a capire «come» San Francesco, massimo esempio di quanto la mitezza e l’amore possano avere una forza straordinaria, diventò patrono d’Italia paradossalmente durante quel ventennio mussoliniano violento e muscolare che vide perfino la nascita, dalle parti di Vibo Valentia, di un’assurda «Madonna del manganello». Si intitola San Francesco d’Italia — Santità e identità nazionale, raccoglie i lavori di una dozzina di studiosi, è curato da Tommaso Caliò e Roberto Rusconi e spiega come il Poverello di Assisi sia stato utilizzato e manipolato.
In Fascisti e cattolici del 1924, ad esempio, Piero Misciattelli si avventura a spiegare come anche il Duce (che nel 1908 aveva descritto i preti quali «gendarmi neri al servizio del capitalismo» e nel programma fascista del 1919 si era spinto a pretendere «lo “svaticanamento” dell’Italia») fosse un redento: «La crisi della sua conversione dalla fede socialista alla fede nazionale culminò nell’esperienza durissima della guerra da lui accettata, misticamente compresa, poi sofferta nel fango delle trincee, nella comunione diuturna con l’umile fante ignoto ed eroico…».
Il frate Paolo Ardali, nel libretto San Francesco e Mussolini, ricordando Tommaso Caliò andò oltre. Scrivendo: «Ho sotto gli occhi una fotografia di Mussolini in tenuta di marcia: il suo volto patito, sofferente, ma sereno, ma forte, mi richiama alla memoria una pittura di Francesco d’Assisi di scuola senese del secolo XIII: identica vivezza nello sguardo, identica nobiltà di atteggiamento, manca solo l’aureola».
Nell’enciclica Rite expiatis del 1926 lo stesso Pio XI (che pure avrebbe raccolto l’apertura del Duce verso il Concordato del ’29 con la proclamazione del 4 ottobre 1926, VII centenario della morte del Santo, quale festa nazionale), diffidò i fascisti da questo uso del Poverello quale «vessillo» di uno «smoderato amore verso la propria nazione». Come sia finita, si sa. Nella scia di Gabriele D’Annunzio, che certo non viene ricordato come un cristiano ma aveva ben chiare le opportunità offerte da un santo autenticamente «nazionale», dieci anni dopo la firma dell’accordo tra Stato e Chiesa, il 18 giugno 1939, San Francesco veniva proclamato patrono d’Italia da Pio XII come appunto «il più italiano dei santi, il più santo degli italiani».
Formula apprezzatissima dal Duce che fin dal 1925 si era abusivamente impossessato del fraticello in chiave patriottica: «Il più alto genio della poesia, con Dante; il più audace navigatore degli oceani, con Colombo; la mente più profonda alle arti e alla scienza, con Leonardo; ma l’Italia, con S. Francesco, ha dato anche il più Santo dei Santi al Cristianesimo e all’umanità».
Qualche decennio dopo, riscoperti l’amore e la devozione per il «vero» San Francesco, c’è da chiedersi che fine abbia fatto, oltre all’amore per gli altri, il secondo dei grandi esempi dati dal patrono d’Italia: la sobrietà. La dedizione agli altri. Certo, chi è senza peccato scagli la prima pietra ed è vero che il Poverello di Assisi non pretese che tutti avessero la virtù eroica di indossare i sandali e il saio. Dai tempi in cui Alcide De Gasperi andò a Washington facendosi prestare un cappotto da Attilio Piccioni e alcuni dei padri costituenti quali Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati e Giorgio La Pira vivevano con spirito e regole monacali nella «comunità del Porcellino» a casa delle sorelle Portoghesi, sembrano passati millenni.
Se quegli uomini avessero spiegato agli italiani la necessità di stringere la cinghia e fare sacrifici, gli italiani avrebbero detto: sì, se lo dicono loro vuol dire che è così, che non c’è altra scelta. Adesso, tra «olgettine» e faccendieri caricati sui voli di Stato, relatori di severe manovre finanziarie che girano con le Bentley e le Ferrari, appartamenti del Colosseo comprati dai ministri «a loro insaputa», ministri con la Maserati quattroporte che bacchettano i precari, è tutto più complicato. Quanto al voto di castità…
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