Rivoluzione oltre il muro, lo scandalo delle parole

GIORNATE AUTORI «Habibi» di Susan Youssef

GIORNATE AUTORI «Habibi» di Susan Youssef   VENEZIA. Le parole sono pericolose e rivoluzionarie, lo diceva già con qualche nervosismo la madre di Beatrice che nel Postino si infiammava per le poesie ispirate da Neruda indirizzate da Troisi alla figlia, ce lo ricordano in maniera più drammatica alla mostra di Venezia Olmi di Il villaggio di cartone («una parola può cambiare il mondo») dove si brucia un povero quaderno salvato dal mare mentre chi ha trascritto parole di speranza è morto nel lungo viaggio. Ci sono le parole degli scrittori bloccate a lungo, come quelle di Kerouac di Juke box all’idrogeno di Ginsberg, pubblicato dopo sei anni per l’ostinazione di Fernanda Pivano come dice nel bel documentario di Teresa Marchesi dedicato a lei, che non si fermano e passano alle generazioni, nelle canzoni e oltre a portare voglia di libertà e pacifismo.
O quelle non dette, espresse in modo sublime nel film di Pietro Marcello, di un genio del cinema come Artavadz Pelesjan che ha trovato nel silenzio (le sue non-parole) una soluzione non solo estetica, ma anche di sopravvivenza per non incorrere in altre censure che gli impedirono e gli impediscono anche oggi di lavorare. Si racconta del pericolo delle parole espresse dalla poesia in Habibi di Susan Youssef, nata a Brooklyn, studi di cinema all’università di Austin, Texas, padre libanese, madre siriana, film palestinese coprodotto con Usa ed Emirati arabi («ho accettato solo finanziamenti palestinesi», dice), primo film girato a Gaza da quindici anni. Lui è uno studente di letteratura, lei di architettura. Lui le legge poemi antichi, lei ascolta rapita e si innamora, ma la differenza di classe si fa sentire. La famiglia disapprova quello studente che fa il muratore, vive tra i rifugiati e non potrà mai dare alla loro figlia un tenore di vita alla sua altezza. L’amore contrastato si alimenta, ma non è Romeo e Giulietta, è una favola più antica, una storia sufi del dodicesimo secolo, basata a sua volta su un poema arabo del VII secolo, Majinun Laila, qui ambientato ai giorni nostri, film nato dai sopralluoghi effettuati per un documentario dove la regista esordiente, raccontò la difficoltà di sopravvivere nella Palestina dei check point, della chiusura nelle tradizioni e nel fondamentalismo come unica risposta.
Quando fioriscono sui muri, i poemi di Quais del VII secolo dedicati alla antica Leyla, omaggio palese alla studentessa contemporanea che porta lo stesso nome, lo scandalo si propaga, il fidanzato giusto è cercato alla svelta e la forza delle consuetudini si rivela ben più forte dei tempi contemporanei. Vediamo manifestarsi in maniera inquietante in tutto il suo potere secolare il paternalismo e la sottomissione femminile. Ma più che il ritratto di una società autoritaria, è interessante la distanza che prende il racconto e costruisce con la forza delle parole un collegamento atemporale attraverso i secoli, così da togliere ai personaggi connotati troppo realistici, e veste da documentario. «Oggi nessuno si occupa dei poeti, tu stessa dici che bisogna scrivere per la politica» le dice il ragazzo e le parole come un’onda intervengono a mostrare come una lotta sottile cos’è che non muore mai, se i martiri, come sostengono i fondamentalisti, o la poesia.

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