Quando la sinistra non fu più scientista

L’APE E L’ARCHITETTO
A distanza di 35 anni, esce la nuova edizione di un volume che segnò un’epoca. Per la prima volta un gruppo di scienziati discuteva di filosofia e di neutralità  della scienza. Un testo miliare da rileggere anche per capire quanto da allora è cambiato Sulla scia dell’«Ape e l’architetto» si ebbe in Italia una fioritura di analisi storiche che ora appare sopita

L’APE E L’ARCHITETTO
A distanza di 35 anni, esce la nuova edizione di un volume che segnò un’epoca. Per la prima volta un gruppo di scienziati discuteva di filosofia e di neutralità  della scienza. Un testo miliare da rileggere anche per capire quanto da allora è cambiato Sulla scia dell’«Ape e l’architetto» si ebbe in Italia una fioritura di analisi storiche che ora appare sopita
Che baratro bastano a scavare solo 35 anni! Dà quasi una vertigine dell’abisso prendere in mano la nuova edizione de L’ape e l’architetto (ed. Bicocca – Franco Angeli, pp. 300, euro 33). Quando apparve nel 1976, questo volume segnò un’epoca. Era la prima volta in Italia che a discutere di filosofia e di neutralità della scienza erano scienziati professionisti. Infatti gli autori – Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo De Maria, Giovanni Jona-Lasinio – erano tutti fisici teorici dell’istituto Enrico Fermi dell’Università La Sapienza di Roma. (Jona-Lasinio era stato uno dei due relatori della mia tesi di laurea ed era nel gruppo di Cini che avevo vinto una borsa di studio di ricercatore).
Fino alla fine degli anni ’60 infatti la sinistra italiana era stata scientista, d’istinto e di convenienza. Lo scientismo era l’orizzonte filosofico più comodo per coniugare insieme emancipazione sociale e progresso tecnologico, razionalismo antisuperstizioso e laicità. Una versione paludata di quello slogan «Soviet + elettrificazione» in cui Lenin aveva condensato tutto il comunismo. Sul versante opposto, le critiche alla scienza venivano tutte da un orizzonte irrazionalista, poetante, nietzscheano, aborrente i numeri («la legge di gravità non renderà mai conto della poesia della luna di notte») e la rivendicazione di un’ineffabilità sostanziale del mondo. Ma già dal titolo L’ape e l’architetto, con la sua implicita citazione marxiana, i quattro autori rimescolavano le carte: «… l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dal principio distingue il peggiore architetto dalla migliore delle api è il fatto che lui ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera…» (Il Capitale, libro I).
Ancora più esplicito il sottotitolo: Paradigmi scientifici e materialismo storico. L’obiettivo degli autori era affrontare la non-neutralità della scienza, la sua storicità, non dalla prospettiva di un irrazionalismo di destra, ma da sinistra e dall’interno del razionalismo. Non a caso i quattro autori erano tutti di sinistra, Michelangelo de Maria era stato uno dei protagonisti del ’68 a Roma e Marcello Cini era stato uno dei fondatori del manifesto espulsi dal Partito comunista italiano nel 1969.
E ci voleva tutta la carica eversiva del ’68 per poter formulare – contro l’establishment accademico e contro la corporazione degli scienziati, in primis dei fisici – una visione storicizzata della scienza. Per poter cioè dire che la scienza è prodotto storico, come ogni altra attività umana, e in quanto tale condizionata dalla società in cui viene esercitata. Fino ad allora aveva prevalso la tesi che la scienza di per sé è neutra e a-storica, anche se il suo (buono o cattivo) uso può essere determinato dal contesto sociale. L’ambizione dell’Ape era invece quella di mostrare che la correlazione tra società e ricerca scientifica penetrava fino nelle teorie e nei concetti. Un’ambizione che valse al libro una levata di scudi sul genere becero «la legge di gravità fa cadere i corpi allo stesso modo in un regime socialista e in uno capitalista».
Era sovversivo affermare che la scienza rientra nel novero delle ideologie, allo stesso titolo – scrivevano gli autori – per cui l’uomo rientra nei primati: affermazione che naturalmente non ci dice niente sulla specificità dell’uomo rispetto allo scimpanzè o della scienza rispetto al marxismo. Ma il punto è proprio questo: le differenze tra scienza e ideologia (per esempio, fascismo) saltano agli occhi, proprio come la voragine tra un umano e un macaco: ma la rivoluzione darwiniana stava proprio nel delineare – al di là dell’abisso – la parentela stretta tra primati. Lo stesso vale per i paradigmi scientifici.
Questo semplice atto mentale – di storicizzare la ricerca non solo nella sua sociologia (alla Bruno Latour per intenderci), ma nei suoi paradigmi concettuali, nel senso di Thomas Kuhn – era reso possibile dalla rilettura del Marx dei Grundrisse. Ma è quest’imprinting di scolastica marxiana a risultarci oggi incomprensibile. Le iterate polemiche dell’Ape con l’empiriocriticismo e con Lenin, l’enfasi su un discorso di Bucharin del 1931, il ricorso a testi come L’interpretazione materialistica della meccanica quantistica di Omelianovskij e Fock, tutto ciò ci parla di un’epoca in cui era importante avvalorare un’interpretazione nuova ed eretica di fronte all’ortodossia leninista e/o positivista del marxismo. La questione ci appassiona oggi tanto quanto sapere se un particolare passo del Vangelo avvalora di più Nestorio o Pelagio.
Se ne rendono conto anche gli autori, chiamati a riflettere – 35 anni dopo – sul loro testo che Ciccotti e De Maria trovano, con troppa autoflagellazione, «illeggibile». La nuova edizione del libro contiene infatti tre scritti (di Cini, di Ciccotti e Di Maria, di Jona-Lasinio), oltre a saggi di autori «esterni» (Arianna Borrelli, Marco Lippi, Dario Narducci e Giorgio Parisi).
Ma c’è qualcosa di altro (rispetto alla scolastica marxista) che fa di questo libro la pietra miliare di un’altra epoca, che lo storicizza proprio come i suoi autori storicizzavano la scienza. Il fatto è che allora L’ape s’inserì in – e promosse – un ampio movimento culturale. Si ebbe in Italia una rigogliosa produzione di analisi storiche, per esempio dell’interpretazione di Göttingen della meccanica quantistica, o della nascita della Big Science, il gruppo Testi e contesti produsse una gran messe di interessanti ricerche. Ma a poco a poco questa fioritura appassì e ora sembra sopita.
Le ragioni dell’esaurimento s’intrecciano con il declino italiano, l’implosione della sinistra, l’arretramento del razionalismo. In genere tutta la filosofia della scienza ha perso smalto in Italia, tranne rarissime eccezioni, tra le quali, per esempio, l’epidemiologo Paolo Vineis.
In modo più specifico, rispetto ad allora, la scienza princeps è non più la fisica, bensì la biologia. E poi, nel paradigma neoliberista, la scienza ha puro valore strumentale, puro mezzo per immettere sul mercato nuovi prodotti o inventare metodi di produzione più economici. La scienza ha perso il suo statuto privilegiato. Tanto che si è parlato di «morte della scienza» e che gli iscritti al primo anno nelle facoltà scientifiche calano in tutta Europa (e in modo drammatico in Italia).
Perciò consiglio a tutti di rileggere (o leggere per la prima volta) questo volume, come si legge un classico di un’era lontana, o come s’intraprende un viaggio nel tempo, un tempo remoto anche se noi, come dicevano gli elleni, vi eravamo già «fioriti».
PS. Da un punto di vista strettamente filosofico, il grande interrogativo sulla storicizzazione della scienza attiene a un nodo chiamato «sottodeterminazione della teoria»: questi nostri discorsi sono possibili se (e solo se) sono concepibili diverse teorie in grado di descrivere lo stesso mondo, o lo stesso insieme di fenomeni. Cioè se la teoria è sottodeterminata rispetto alla realtà. Per dirla in modo più brutale: se su qualche pianeta di qualche galassia lontana esistono esseri che hanno elaborato una matematica (un linguaggio logico) senza numeri, senza rette, né curve, né sfere, ma che rappresenta però anch’essa il mondo nel senso galileaiano («la matematica è la lingua in cui è scritto l’universo»).

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SCAFFALE Nuovi contributi per un classico degli anni ’70

 Apparso per la prima volta sugli scaffali delle librerie italiane nel 1976 per le edizioni Feltrinelli, «L’Ape e l’Architetto» viene oggi ripubblicato da Franco Angeli (pp. 304, euro 33) in una nuova edizione che comprende anche una serie di nuovi saggi, che ne rielaborano e attualizzano gli spunti. In particolare, Giovanni Jona-Lasinio affronta i «Mutamenti della prassi scientifica nella società tecnologica», Giovanni Ciccotti e Michelangelo de Maria analizzano «Ciò che è vivo e ciò che è morto de “L’Ape e l’Architetto”», mentre Marcello Cini rilegge «L’Ape e l’Architetto: trentacinque anni dopo» e ancora Giovanni Jona-Lasinio ritrova «L’Ape e l’Architetto in retrospettiva». Al gruppo degli autori «storici», si aggiungono adesso Arianna Borrelli («Il rapporto fra scienza e società nella storiografia della scienza e ne “L’Ape e l’Architetto”»), Marco Lippi («L’Ape e l’Architetto tra scientisti e irrazionalisti degli anni ’70»), Dario Narducci («Gli spettri della scienza e i fantasmi dell’irrazionalismo») e Giorgio Parisi («La lotta contro l’ortodossia»).

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